Da Il Sole 24 Ore (Domenica) del 17 maggio
La globalizzazione ha determinato non solo una denazionalizzazione dello spazio economico. Ha modificato gli equilibri geo-politici fra le diverse parti del mondo, in seguito al consolidamento di due grandi player, come Cina e India, e all’irruzione sulla scena di altri Paesi emergenti seppur con tassi di sviluppo meno elevati. D’altro canto, mentre gli Stati Uniti sono riusciti a risollevarsi dalle conseguenze più pesanti del sisma finanziario del 2008, l’Europa stenta tuttora a riprendere, nel suo insieme, fiato e vigore; e si è così allontanata dal suo orizzonte la prospettiva dell’unione politica, di cui la messa in comune nell’Euro zona di una moneta unica avrebbe dovuto essere il prologo.
Ma quanto è avvenuto negli ultimi anni, sulla scia di un’economia globalizzata e di un cosmopolitismo multipolare, non ha fatto che accentuare un processo, già in corso da tempo, segnato dallo sfilacciamento, un po’ dovunque nel Vecchio Continente, delle forme di rappresentatività politica e sociale affermatesi di pari passo con l’evoluzione degli ordinamenti democratici e nell’ambito della società di massa. È quanto si evince da un saggio di Carlo Carboni che analizza, con riferimento allo scenario europeo e al caso specifico dell’Italia, le cause di fondo che avrebbero finito per minare, al volgere del Novecento, sia il potere d’orientamento sia quello direttivo delle élite, di matrici e connotazioni diverse, attestate saldamente per un lungo periodo ai vertici del sistema. Di qui la crisi d’identità che, secondo l’autore, ha investito le élite democratiche e pluraliste, protagoniste ed espressione dell’assetto istituzionale ed economico-sociale subentrato, dal secondo dopoguerra, a quello facente capo in passato alle élite aristocratiche e borghesi del notabilato e del ceto colto, verticali e oligarchiche. E ciò in seguito alla transizione verso una società post-moderna e postideologica,o (per dirla con Zygmut Bauman) una “società liquida” senza più saldi punti d’attracco e sempre più fluida.
In effetti sono numerosi e pregnanti i segnali sia di indebolimento delle élite politiche prevalenti sino a poco tempo addietro (in quanto insidiate da un forte astensionismo elettorale, da una crescente diffidenza nei riguardi della politica, dall’inaridimento dei canali di aggregazione e partecipazione costituiti dai partiti, nonché dalla diffusione di movimenti di protesta e disagio civile) sia di logoramento di alcuni tradizionali gruppi dirigenti economici (per via del restringimento del campo d’azione e d’influenza di associazioni imprenditoriali e di categoria) e delle vecchie centrali sindacali (data la senescenza dei loro classici procedimenti negoziali-conflittuali). A non contare la perdita di peso specifico di vari corpi e sodalizi intermedi.
Al posto di queste componenti elitarie, man mano sdrucitesi a causa della loro autoreferenzialità e dello scadimento della loro relazionalità (dovuta anche, nel caso italiano, da corruzione e illeciti), l’autore sostiene che hanno via via assunto, dagli inizi del ventunesimo secolo, un ruolo preminente quelle che egli definisce col termine di “net élite”: ossia, una superclasse di manager apicali nell’economia e nella finanza, un robusto nucleo di autorevoli tecnocrati d’alto livello, e una schiera di opinion maker abili nell’orchestrare l’intera batteria degli strumenti massmediatici.
Insomma, sarebbe avvenuta una sorta di metamorfosi, coincisa sia con la progressiva evaporazione, dopo l’Ottantanove, delle radicali differenze politico-ideologiche d’un tempo fra destra e sinistra (ma anche col declino di una determinata etica pubblica), sia col sopravvento, in un universo sempre più mutevole e interconnesso, di esigenze di governabilità, rispetto a quelle di rappresentatività, e quindi di peculiari capacità decisionali e di nuove efficienti reti relazionali.
Senonché c’è da chiedersi (come rilevano, insieme a Carboni, altri sociologi e analisti) se, in seguito all’atrofizzarsi degli spazi di partecipazione politica dei cittadini e alla frammentazione del tessuto sociale, in un’Europa a trazione tedesca, rimasta inchiodata al parametro dell’austerità, la democrazia non corra oggi un duplice rischio. Da un lato, il pericolo di cedere il passo a una strisciante egemonia delle net élite, di una nomenclatura dai poteri apparentemente “soft” ma in realtà fortemente condizionanti e pervasivi; e, dall’altro, quello di essere esposta sia a un rigurgito di nazionalpopulismo sia alle suggestioni di un carismatico leaderismo.
di Valerio Catronovo
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