Il delitto di Garlasco visto da Gabriella Ambrosio, intervistata da Luca Martini
Il libro di cui oggi vogliamo parlarvi è l’ultima fatica narrativa di Gabriella Ambrosio, scrittrice, saggista, pubblicitaria e giornalista italiana, cofondatrice dell’agenzia pubblicitaria YesIAm, premiata per la sua qualità creativa molte volte in Italia, Europa, Stati Uniti.
Il testo si intitola “Il garbuglio di Garlasco – Un perfetto colpevole e l’ostinata ricerca della verità”, appena uscito per l’editore Rubbettino..
Abbiamo incontrato in questa occasione Gabriella Ambrosio, che è stata così gentile da rispondere alle nostre curiose domande su un lavoro davvero ben fatto, preciso e godibilissimo, che mette insieme con perizia la narrativa alla documentazione giudiziaria in modo preciso e umano.
Domanda: Il suo è un interessante lavoro di meta diritto, in cui il caso di cronaca si intreccia con una parte ottenuta attraverso interviste esclusive realizzate a protagonisti della vicenda, parti inquirenti e giudicanti, tutte virgolettate, che fanno il paio alle parti di fiction a corredo della storia. Come le è venuta questa originale idea?
Risposta: Volevo esplorare fino in fondo questa storia, in tutti i suoi risvolti umani. Volevo che il lettore riuscisse a mettersi nei panni dei protagonisti, dei familiari della vittima e del condannato, degli avvocati, dei giudici, dei periti e di tutti quelli che hanno avuto una voce in capitolo o anche solo un sentimento nella vicenda. Solo il genere del romanzo riesce a darti questo. Ma chiariamo, non si tratta affatto di un romanzo “liberamente tratto da”. Al contrario: questo è un romanzo dove ogni parola è vera. Per questo è stato così difficile scriverlo. Mi muovevo in territorio minato, mettendo in scena con nome e cognome persone ancora estremamente coinvolte nella vicenda. In definitiva, il risultato è un libro di genere ibrido, di quello che viene variamente etichettato sotto la macro-area della ‘narrativa non fiction’.
D. Lei, dottoressa Ambrosio, non è nuova a iniziative letterarie del genere. Difatti, nel 2004, ha pubblicato per Nutrimenti il libro “Prima di lasciarsi” che narra dell’attentato suicida commesso nel 2002 nel supermercato di Kiryat HaYovel, Gerusalemme, ad opera di Ayat Al-Akhras diciassettenne palestinese del campo profughi di Dheisheh. Il libro ha avuto un enorme successo, tradotto in varie lingue, ed è considerato un esempio di integrazione e dialogo tra Israele e Palestina. Come ha concepito quell’opera? E che legami vede con il suo romanzo attuale?
R. Alla base della decisione di raccontare la storia di quell’attentato, c’era stata la notizia erroneamente data dalla televisione israeliana nella confusione dei primi momenti dopo l’esplosione, mentre si raccoglievano i corpi: due sorelle kamikaze, dicevano i giornalisti, si sono fatte esplodere in un supermercato di Gerusalemme. La verità era che una ragazza palestinese si era fatta esplodere uccidendo una sua coetanea israeliana, un’ebrea sefardita, che le somigliava fisicamente in maniera impressionante. Quanto Time qualche giorno dopo mise in copertina una accanto all’altro le foto delle due ragazze per mostrarne la somiglianza, la comunità degli ebrei americani insorse: perché è troppo scandaloso, troppo doloroso rispecchiarsi nel nemico. Una storia così fortemente simbolica, fratello che uccide fratello, mi chiamava irresistibilmente in quella terra, così decisi di andare in Israele e nei Territori Occupati per visitare i luoghi, conoscere i familiari e gli amici delle due ragazze, raccogliere testimonianze sulla loro vita, e su tutto quello che era addensato nelle settimane precedenti a quell’incontro fatale.
D. Il nuovo libro di cui parliamo, che si intitola “Il garbuglio di Garlasco”, racconta la nota vicenda della morte di Chiara Poggi, brutalmente assassinata nell’agosto del 2007, e del “colpevole perfetto”, come lo chiama lei, ovvero Alberto Stasi. Quando ha capito che sarebbe stato ideale come soggetto per il suo nuovo lavoro?
R. Questa volta l’interesse non è nato da una notizia, e non è nato neanche da un interesse specifico per la cronaca giudiziaria o la cronaca nera. E’ nato da una battuta durante una cena fra amici. Un’amica regista parlava del casting che stava svolgendo in quei giorni (il casting è il lavoro di ricerca dell’attore dalla faccia giusta per il personaggio giusto), e di un carattere della sua storia che era dotato di forte ambiguità e di una freddezza disturbante. Ecco, lì è arrivata la battuta: una faccia tipo il bocconiano dagli occhi di ghiaccio?, le abbiamo chiesto. ‘Bocconiano dagli occhi di ghiaccio’ è come i giornalisti avevano chiamato sin dai primi giorni il principale, anzi unico indagato del delitto di Garlasco, Alberto Stasi. ‘Bocconiano’ per suggerire l’appartenenza a una classe privilegiata, ‘occhi di ghiaccio’ in riferimento ai suoi occhi molto chiari. Poi in quella cena si è passati a parlare della personalità di Stasi, del suo comportamento. E infine in generale dei processi indiziari e dei processi mediatici.
Ecco com’è nata l’idea, dal phisique de role dell’assassino, innanzitutto. È lì che mi è scattato il campanello d’allarme. Ho intuito che c’era qualcosa di poco chiaro, di magmatico, che stava risucchiando anche me senza che ne avessi coscienza. E che avevo il dovere capire.
I libri, o qualsiasi nostra ricerca o percorso personale, nascono sì da un trasporto intellettuale, ma forse e ancor di più da un confuso trasporto emotivo.
D. Le incongruenze probatorie che si snocciolano nel romanzo per voce dei tanti protagonisti mettono in lice l’incertezza di una sentenza quantomeno dubbia, fatta di vuoti, di mancanze e di un presunto colpevole “antipatico” e per questo poco amato dalla stampa e dall’opinione pubblica, che sono stati i primi tribunali a condannarlo. Cosa succede, ora, che la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha messo in dubbio la correttezza del processo?
R. C’è un iter ben preciso in questi casi. Ci sono tempi prefissati per le risposte dell’avvocatura di Stato e poi per le repliche della difesa di Stasi, ma non per la Cedu, che notoriamente non si dà scadenze per le sue decisioni. Se la Cedu confermasse che il processo ha registrato delle scorrettezze, si andrebbe direttamente a un nuovo processo.
D. Nel narrare la vicenda giudiziaria e umana, emergono alla luce due protagonisti della vicenda che sono per lo più sconosciuti al pubblico, come una giovanissima e agguerrita avvocata e un consulente legale molto particolare, accomunati dal desiderio lavorare insieme per scoprire la verità. Ci può dire qualcosa di questi suoi personaggi?
R Questo è un lato veramente originale della vicenda, quello che ne fa una storia unica. Nel libro sono posti narrativamente in primo piano l’avvocata Giada Bocellari e il perito Gabriele Bardazza. Due grandissime personalità. Dotate di preparazione, intelligenza e passione. Ma non sono gli unici “eretici”. Nel capitolo “La rivolta dei tecnici” racconto come siano stati molti i professionisti che, conoscendo le perizie e gli atti di quel processo perché vi avevano lavorato, una volta concluso definitivamente l’iter giudiziario, e dopo che era stata negata ogni ulteriore possibilità di revisione della condanna, si sono ribellati alla condanna. Rispondendo solamente a un comando interiore, a un loro intimo e connaturato sentimento di giustizia, hanno messo gratuitamente a disposizione le loro professionalità, ben valutate e ben pagate nell’ambiente, per riprendere in mano i fili della vicenda giudiziaria.
D. Quanto tempo ha impiegato nella scrittura di questo libro? E quanto, soprattutto, è stato il tempo dedicato alla documentazione dei fatti e alla lettura degli atti processuali?
R. Tantissimo. Tantissimo tempo. Anni. La famosa cena di cui le parlavo risale al 2017. Ho cominciato chiedendo ai Tribunali e alle Procure l’accesso agli atti e a leggerli attentamente. Tutti, dalla trascrizione delle udienze, le sit, gli interrogatori, le perizie, le intercettazioni. Poi ho cercato sulle fonti aperte. E mentre lavoravo accadevano nuovi sviluppi. Quindi richiedevo nuovi atti, eccetera. E mano mano che proseguivo, ero sempre più attonita e incredula e sempre più motivata ad approfondire. Da quasi subito, ho cominciato anche a conoscere di persona molte delle persone coinvolte.
D. Quella che si legge nel libro è una accurata ricostruzione dei fatti, che porta a un giudizio finale definitivo: si è trattato di una condanna infondata. Quale è il suo pensiero di autrice? Corrisponde a quello che risulta dal suo libro? E perché, secondo lei, si è arrivati a un risultato simile?
R. Il libro non dà sentenze. Come qualsiasi libro ha il dovere di fare, semplicemente dice al lettore: le cose sono più complesse di quel che sembra. E porta tutti noi a farci delle domande, che a loro volta generano nuove domande. La sola morale di un libro è quella di ottenere nuova conoscenza.
D. Quanto ha contato, secondo lei, la scarsa empatia di Stasi e la sua presunta freddezza nella formulazione di un capo di accusa così grave e di una condanna?
R.A mio parere molto. Stasi non si comportava come noi ci aspettavamo che facesse. Non piangeva per se stesso e tanto meno per la sua fidanzata. Non rilasciava interviste, mentre tutte le altre parti di questa vicenda non ne lesinavano. Anzi, si sentiva oppresso dai giornalisti e a volte li insultava. Odiava il nostro sguardo sulla sua vicenda E tutti noi abbiamo umanamente ricambiato.
C’era poi un forte giudizio morale su come si era comportato, secondo il suo stesso racconto, quando aveva visto il corpo insanguinato della fidanzata immobile in fondo alle scale di una cantina: non era corso accanto a lei per provare a prestarle soccorso, non era uscito urlando dalla casa per chiedere aiuto… ma si era infilato in macchina ed era corso alla caserma dei carabinieri che distava circa 700 metri. Nel frattempo faceva una telefonata al 118 che a sentirla e risentirla non ci piaceva proprio per niente.
Tutto questo ha contato, sì, è stato un pre-giudizio iniziale dalla quale credo pochi riescano tuttora a liberarsi.
D. Nella narrazione della vicenda, emergono i travagli di coscienza di alcuni dei magistrati che si sono occupati del caso, e quindi i dubbi che avevano sulla colpevolezza di Stasi, o, quantomeno, sulla dimostrazione della sua effettiva partecipazione al delitto. Come hanno vissuto il processo questi magistrati? E come mai i loro dubbi non sono stati tenuti in debita considerazione?
R. Due giudici hanno assolto, uno ha condannato. La Cassazione la prima volta ha annullato la doppia conforme, ha annullato cioè le due assoluzioni, la seconda volta ha confermato la condanna. Quando mi chiede di dubbi non tenuti in debita considerazione, penso che lei si riferisca alla requisitoria del Sostituto Procuratore nell’ultima Cassazione, che aveva chiaramente giudicato non corretta dal punto di vista giuridico la sentenza e aveva sollecitato l’annullamento con rinvio. Come mai il suo parere non sia stato tenuto in conto, credo che afferisca alla libertà di qualsiasi corte giudicante di farsi un’opinione autonomamente e di sentenziare secondo coscienza.
D. Come spesso capita in Italia, ci si è schierati tra innocentisti e colpevolisti, in un dibattito mediatico senza fine che ha visto tanto rumore sulla carta stampata e sui media televisivi. È un modo di vedere i fatti solo italiano o lo ha riscontrato anche in altri Paesi?
R. L’espressione ‘circo mediatico-giudiziario’ è nata in Francia. Su Netflix in questi mesi si trova una serie televisiva che non ho visto ma ha un nome molto esplicito: “Trial by media”. Il problema del processo mediatico e della giustizia parallela è dunque un problema comune a diversi paesi europei come agli Stati Uniti. Quello di giustizia e diritto di cronaca è un tema enorme: il diritto di cronaca è sacrosanto e tutela tutti, ma non si può consentire che scivoli nel voyerismo e nella gogna mediatica.
Inoltre, c’è da notare che l’interesse del pubblico si infiamma soprattutto nel primo periodo, quando ci sono le indagini, quando si muove il PM. E la tesi accusatoria è quella che catalizza più facilmente. Il dubbio è più delicato da maneggiare, dà luogo a sentimenti innanzitutto di testa non di pancia, quindi meno immediati.
Uno studio abbastanza recente dell’Unione Camere Penali Italiane ha analizzato e concluso che il 70% degli articoli non riporta la difesa come fonte di informazione
D. Vista la sua propensione verso l’investigazione e i misteri giudiziari italiani, ha in cantiere un nuovo romanzo sul genere ispirato a altri delitti celebri? Non nego che il pensiero, leggendo il libro, è andato subito al caso di Cogne e alla morte del piccolo Samuele ad opera di Annamaria Franzoni.
R. No, non ho in cantiere nulla collegato a casi giudiziari o di cronaca nera. Certamente però collegato in generale ai diritti umani.
D. Leggendo il libro, scritto molto bene con una struttura quasi fotografica, ho pensato subito che potrebbe adattarsi a una trasposizione cinematografica. Le piacerebbe? E nel caso, facendo un gioco, chi vedrebbe come attori protagonisti?
R. Questo è un gioco che lascio ai miei lettori. Non amo molto dare descrizioni fisiche dei personaggi, mi piace che ognuno lo immagini come lo vede spuntar fuori dal libro.
D. Come ultima domanda, le chiedo una curiosità da scrittore: come lavora di solito nella redazione di un libro di narrativa? Ci sono rituali particolari che segue? E ci sono, infine, progetti in corso di sviluppo?
R. Quando scrivo divento ancor più asociale di quel che già sono un po’ di natura. Ho bisogno di stare sola e lontana da qualsiasi distrazione. Se riesco, mi trasferisco almeno per qualche tempo nella seconda casa. Al limite posso avere come compagnia un cane.
Quanto a quello cui sto lavorando in questi mesi sono due progetti diversi, uno di narrativa, l’altro cinematografico.
Grazie per le sue cortesi parole e buon lavoro, certi che il suo libro sarà un nuovo successo.
Grazie a lei e a Filodiritto