dal blog Agorà di Cult del 6 Luglio
Coinvolto direttamente in un incontro per la presentazione del volume IL CORPO SOLITARIO. L’autoscatto nella fotografia contemporanea, e indirettamente sollecitato da un genere che stimola all’approfondimento, ho raccolto alcune riflessioni sull’autoscatto, pratica fotografica legata alla coniugazione di diverse entità concettuali. L’opera, ideata e curata da Giorgio Bonomi per la Rubettino, indaga l’universo dei “Fotografi che fotografano se stessi”, è strutturata in otto capitoli: Il corpo come identità, autorappresentazione, travestimento, narrazione. Il corpo messo a nudo, assente, come denuncia, scandalo, sperimentazione, merce. Un lavoro realizzato nell’arco di un decennio, con qualche interruzione, che ha coinvolto oltre settecento autori e duemila fotografie. “Per autoscatto – precisa l’autore – intendiamo le forme con cui un artista realizza la fotografia di sé o di una sua parte: con il temporizzatore, con il flessibile, con la camera in mano, con il porre una parte di sé direttamente sull’apparecchio riproduttore (ad esempio lo scanner), con il telecomando ed anche con la foto scattata materialmente da un servente, per usare la terminologia militare dell’artiglieria, dell’artista che si mette in posa, perché in questo caso siamo a pieno titolo all’interno della filosofia dello scatto, ed il servente, quasi sempre anonimo, ha una funzione meramente meccanica.” Una ricerca per calarsi nella realtà di un contesto singolare e, al contempo, per dare un contributo alla crescita della fotografia, nella quale si fondono, ora con maggiore equilibrio ora meno, le diverse sensibilità che praticano l’autoscatto, le potenzialità espressive del corpo solitario e l’ampia teoria dei tanti linguaggi che l’autore ha inserito nel volume. Questi ultimi, forse troppo numerosi, per cui, stimolando all’approfondimento penalizzano certe sensibilità a vantaggio di altre che ancora non riescono ad esprimere valenze narrative altrettanto efficaci. Infatti, alcuni scatti beneficiano di apprezzamenti che non meritano, mentre altri, soffrono per l’esatto contrario, meriterebbero di stare in un altro contesto. Una maggiore selezione avrebbe giovato al libro dandogli una e meglio definita identità. Ampio il ventaglio delle proposte. Molte le tecniche utilizzate. Tante sensibilità diverse tra loro, nella forma e nei contenuti, tutte tese a dimostrare qualcosa, a elaborare un proprio punto di vista, in direzione sempre della possibile definizione della propria identità. Stati d’animo singolari, atmosfere speciali, indefinibili consapevolezze. E ancora: auto-rappresentazioni fini a se stesse, travestimenti diretti a raccontare un mondo che non esiste.
Autoritratti finalizzati ad elaborare una storia con al centro l’autore. Uno stimolante universo di sensazioni nelle quali si nascondono timidezze, preoccupazioni, timori con i quali si vuole sempre dimostrare qualcosa, di buono o di cattivo, di bello o di brutto, di semplice o di complesso. Presenti autori notissimi, sconosciuti, emergenti, italiani e stranieri, donne e uomini. Si leggono, tra le pieghe di magnifici autoritratti, vere e proprie “singolari manie”, gli autori si sentono liberi, a tutti livelli, per cui fotografano se stessi in totale libertà espressiva. “Dal punto di vista della fotografia il ritratto sembra proprio la cosa più adatta da fare. Una cabina automatica – già ce lo insegnò Franco Vaccari alla Biennale del ’76 – non fa altro che sputare foto-ritratti utili a certificare che noi siamo proprio noi; e una volta in più si conferma l’intuizione di Foucault che le immagini da una parte sono il cemento che tiene a forza insieme i nomi e le cose, e dall’altra sono il terreno scivoloso che scompone questa presunta unità. Dunque facciamo un po’ il punto della situazione: il ritratto fotografico parte con questa aura fossile di autenticità, a tal punto che la storia della fotografia contemporanea prevede per la maggior parte infrazioni ai luoghi comuni dell’identificazione, della classificazione e dell’autorappresentazione. (Auto)ritratto: fra rimeditazione e rimediazione dell’identità fotografica”. Un volume che affronta uno stimolante tema nell’ambito della fotografia, intesa come ricerca, indagine, studio, sperimentazione, che appassiona un numero di fotografi sempre maggiore. Per quanto attiene, invece, l’aspetto estetico e culturale, l’autoritratto, almeno così come è disegnato in quest’opera, invade più segmenti culturali. E non solo quello visivo. La psicologia, la sociologia, ad esempio. Se poi si guardano i generi, c’è il nudo, il ritratto, l’ambiente. E questo, si converrà, solo per fare qualche esempio di supporto alle riflessioni. “Il corpo solitario” , in realtà, non è un libro fotografico classico. E’, semmai, una raccolta di immagini, strutturata, per necessità di studio, con un taglio del grande album, nel quale, accanto a immagini interessanti, di alto contenuto linguistico-espressivo, esteticamente stimolanti, ce ne sono molte altre con poca o affatto valenza culturale. In questo volume, le fotografie, considerate singole e in gruppo, sono veicoli e strumenti di studio, campi di riflessioni, terminali di valutazioni. Non è un trattato di psicologia ma c’è molto di questa disciplina che studia i fenomeni propri del meccanismo mentale, affettivo e relazionale, sia dal punto di vista speculativo dal punto di vista sperimentale. E l’approdo di un autore all’Autoscatto è decisamente un fatto mentale complesso che invade altri universi, come il silenzio, la solitudine, gli ambienti, il corpo, il nudo. Tanto per dirne qualcuno. Auto-fotografarsi significa auto-rappresentarsi e, quindi, tentare di auto-giudicarsi. Si pensi per un momento al “Diario” oppure alla “Biografia”. Non è un modo per “vedersi”, raccontarsi, studiarsi, giudicarsi?
di Fausto Raschiatore
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