Negli anni Sessanta una formidabile campagna mediatica aperta dall’Espresso di Eugenio Scalfari accusò il presidente della Repubblica dell’epoca, Antonio Segni, e il Comandante dell’Arma dei Carabinieri, Giovanni De Lorenzo, di avere organizzato durante la crisi di governo del 1964, un colpo di Stato. Il progetto con cui doveva realizzarsi fu denominato piano Solo. Di fronte alla evidente constatazione che non era successo niente la campagna arretrò dicendo che si era trattato di una minaccia armata che aveva costretto il Partito socialista a rinunciare alle riforme progettate, e aveva determinato una svolta a destra della politica italiana. L’accusa ebbe uno straordinario successo di opinione e di stampa. Su di essa si innestò, negli anni 70, una altrettanto formidabile campagna contro la Democrazia cristiana, dipinta come partito golpista, responsabile di coprire, o addirittura di ideare i drammatici attentati (spesso di matrice fascista) che insanguinarono l’Italia in quegli anni.
In realtà vi erano molti argomenti che indicavano la assoluta inconsistenza delle accuse. Per due volte della questione fu investito il Tribunale di Roma. Nella prima sentenza i giornalisti dell’Espresso furono condannati per diffamazione, nella seconda assolti: ma in ambedue i casi il Tribunale escluse l’esistenza di un disegno eversivo. La stessa conclusione fu raggiunta dalla relazione di maggioranza della Commissione di inchiesta parlamentare e di una commissione del ministero della Difesa.
Nonostante questo la campagna ebbe un grande successo. Gran parte della pubblicistica e dei libri di storia la hanno accolta, lasciando in gran parte della pubblica opinione l’idea che in quella estate era successo comunque qualcosa di eversivo. Lo si deve molto al grande appoggio politico ricevuto da gran parte della sinistra, che la democrazia era stata in pericolo. Come rileva Agostino Giovagnoli, uno dei più importanti storici di questo periodo, si rivela qui «un problema della sinistra italiana durante la prima Repubblica: la difficoltà di fare i conti con i problemi reali, compresi i propri limiti e i propri errori». Ho lavorato per alcuni anni sull’enorme materiale documentario di tutta la vicenda per difendere la memoria di mio padre, accusato di qualcosa che un uomo, uscito da venti anni di antifascismo e protagonista nella costruzione della democrazia italiana e nel miracolo economico, non avrebbe potuto nemmeno immaginare. Con una angoscia e una rabbia crescente ho toccato con mano la assoluta inconsistenza del castello accusatorio, e la totale falsità di tante delle affermazioni riportate. Il caso più eclatante è quello di Pietro Nenni, citato da una lunga pubblicistica come colui che avrebbe denunciato il complotto, ma nella realtà sostenitore esplicito della assoluta inesistenza di ogni disegno eversivo. Due anni dopo il presunto golpe il generale De Lorenzo fu promosso capo di stato maggiore dell’Esercito da quegli stessi uomini (Saragat presidente della Repubblica, Moro presidente del Consiglio e Nenni vice premier) che secondo il racconto sarebbero state le vittime della minaccia armata e del progetto golpista. Come è credibile che tre statisti nominino alla carica più importante dell’esercito un uomo che due anni prima aveva organizzato contro di loro un terribile disegno golpista?
Ho raccontato tutto questo in un libro che è da pochi giorni nelle librerie, Il colpo di Stato del 1964. È giusto che gli italiani sappiano che mai la democrazia italiana è stata in pericolo. Chi ha costruito un racconto inesistente ha veramente realizzato la più grande fake news della storia repubblicana.
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