da Alias (Il Manifesto) del 28 Giugno
Grazie ad alcuni classici del cinema abbiamo l’idea di avere una precisa documentazione della Grande guerra, ma Le ceneri del passato di Giuseppe Ghigi (Rubbettino, 16 euro) ribaltano questa certezza. Studio storico entusiasmante per il vasto raggio di interesse e la precisione dell’indagine, indaga opere e costanti, fatti storici ed elementi bellici ed entra nel merito dei film parallelamente agli eventi, con un prologo folgorante. E la descrizione della tomba del soldato Peter Pan che si trova nell’Ossario di Monte Grappa, morto nel 1918 durante un’azione, nato in uno sperduto villaggio ungherese nel 1897, lo stesso anno in cui J. M. Barrie cominciava a immaginare il suo personaggio, una precisa intuizione del mondo che stava cambiando. Dei film che raccontano la Prima guerra mondiale sono riportati sullo schermo in particolare le manifestazioni di euforia patriottica l’indomani dell’attentato di Sarajevo nel 1914, così come si può vedere anche nei cinegiornali che mostrano le folle festanti della piccola e media borghesia ansiosa di arruolarsi. Un entusiasmo che Abel Gance riesce a frenare (J’accuse, 1919) con una scena animata di scheletri danzanti. Il patriottismo, l’interventismo e le croci sono ben visibili nel cinema. Ma il pacifismo dei film degli anni ’30, a massacro finito, non sarà accettato, Remarque l’autore del romanzo All’ovest niente di nuovo di Milestone, fu costretto a scappare dalla Germania e il film fu proibito. Quello che i film non riusciranno a mettere in scena sarà proprio «la guerra». Non si tratta infatti di far muovere eserciti contrapposti ben individuabili dalle diverse divise, assalti all’arma bianca, cavalleria in azione mentre i generali sono appostati sull’alto delle colline: con le nuove armi tutto è cambiato, ma i primi a non rendersene conto allo scoppio della guerra sono proprio gli eserciti, ancorati ai vecchi schemi. Così elemento assai interessante del libro è l’analisi dell’impossibilità di rappresentare la Grande Guerra: non si tratta più di percorrere le strade con bandiere e fanfare, ma di sapere dove mettere la macchina da presa in un campo di battaglia dove protagonisti sono i nuovi armamenti che non prevedono più eserciti ben visibili in campo, una situazione ben diversa da quello che si vede per lo più sullo schermo e nei quadri secondo modelli per lo più ancora ottocenteschi. Così ad esempio «Griffith è stato l’unico regista statunitense ad aver visitato e filmato dal vero le trincee europee, ma forse resta legato a una particolare drammaturgia dello scontro forse si adegua ai codici del pubblico rimasti alla cavalleria e alla fanteria della Secessione»
Gli scontri non erano duelli, ma avvenivano a distanza, con armi a ripetizione, mirini ottici, i massacri avvenivano nella terra di nessuno. Non si tratta più di un duello grandioso tra gentiluomini, ma fango e ancora fango, morte e nebbia, polvere e sangue. Unico elemento visivo che si può evidenziare è la carta topografica, che può dare qualche vaga indicazione del vastissimo territorio di azione, mentre il campo di battaglia assomiglia a una situazione cubista (suggerisce Gertrude Stein) in cui le coordinate euclidee sono azzerate. Entra in scena l’avanguardia, gli artisti tentano di descrivere questo mondo nuovo, inaspettato e tragico. Cercano di elaborare «l’estetica della guerra», poi qualcuno entra in azione direttamente. Come abbiamo recentemente riportato su Alias, parecchi pittori vengono arruolati nell’esercito francese (Leger in testa) nell’Equipe de Camufiage, la brigata del bamuffamento, perché operino a depistare il nemico, creando false ferrovie e addirittura una falsa Parigi. Il punto di vista non è più ad altezza d’uomo o di canocchiale, ma quello aereo gioca un ruolo predominante. Neanche i documentaristi dei cinegiornali (Gaumont, Pathé, Eclair) possono piazzare le loro pesanti cineprese in un campo di battaglia dove durante l’azione rischierebbero di essere i primi ad essere colpiti. E perfino il film che si considera veritiero, Verdun souvenir d’Histoire (’28) di Léon Poirier (1928), in realtà è montato con film di finzione insieme a brani documentari. Nel libro si analizza il lavoro svolto dai registi europei e americani da La Grande parata di King Vidor, a Le vie della gloria di Howard Hawks, a Orizzonti di Gloria di Stanley Kubrick a Spielberg e tutto quel cinema italiano anche di seconda serie così utile a comprendere le manovre della censura. Uno tra tutti: un inaspettato Maciste alpino (1916) di Luigi Maggi e Luigi Romano Borgnetto, che mette insieme peplum, comico e bellico-risorgimentale, ambientato sul set di un film che si sta girando al confine con l’Austria, quando scoppia la guerra e Maciste è fatto prigioniero dagli asburgici insieme alla troupe dell’Itala Film. Che non si potesse parlare dell’assurdità degli alti comandi è documentato dal caso di Uomini contro di Francesco Rosi che subì (assolto) un processo per vilipendio delle Forze armate. Fino ad arrivare al classico di Monicelli che mette un punto definitivo con La grande guerra. Arguto nel raccontare, preciso e complessivo, sorprendente, Le ceneri del passato racconta un secolo di storia del cinema e analizza il tessuto di migliaia di film realizzati sull’argomento con le loro figure canoniche e le loro costanti, un materiale che cova ancora «sotto la cenere».
di Silvana Silvestre
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