Il carcere, una terra straniera da conoscere e poi abolire (Radicali.it)

di Marco Del Ciello, del 10 Luglio 2015

Livio Ferrari

No prison

Ovvero il fallimento del carcere

Da Radicali.it del 9 luglio

Michel Foucault, nel suo classico Sorvegliare e punire (Einaudi, 1976), ci ricorda che le proposte di riforma e di correzione del carcere sono antiche quasi quanto il carcere stesso. Da più di due secoli autori di varia formazione si esercitano nella critica, talvolta portata anche alle estreme conseguenze, dell’istituzione penitenziaria. Nel complesso, una biblioteca imponente. È quindi difficile scrivere ancora qualcosa di originale sul tema, eppure Livio Ferrari ci riesce. Il suo ultimo libro, No Prison. Ovvero il fallimento del carcere (Rubbettino, 2015), offre anche al lettore esperto della materia spunti di riflessione non scontati. Vediamo perché.
Per molte persone il carcere è una terra straniera, un luogo lontano da cui arrivano notizie scarse e frammentarie, in cui vivono individui pericolosi per cui è difficile provare sentimenti di comprensione o di empatia. Noi radicali naturalmente sappiamo che questa percezione, pur molto diffusa, è solo un’illusione: chiunque, anche il più retto e disciplinato dei cittadini, può essere vittima della “giustizia” italiana e ritrovarsi all’improvviso dentro una cella. Anche a distanza di trent’anni, l’amara vicenda di Enzo Tortora resta un valido promemoria di questa realtà. Ferrari però appare molto consapevole di questo velo di ignoranza che circonda l’istituzione penitenziaria e quindi adotta l’approccio di un antropologo culturale per accompagnarci in un viaggio, al tempo stesso affascinante e terribile, verso questo paese nascosto. C’è addirittura un capitolo («La prassi penitenziaria», p. 87-92) interamente dedicato alla lingua del carcere, completo di glossario dei termini usati dai detenuti. Chi, dall’esterno, potrebbe ad esempio capire che l’erbivoro è un «[e]rgastolano che si è adattato alla vita della galera»? Ma non è solo folklore, c’è la descrizione puntuale delle lotte feroci per raggiungere l’ambita posizione di capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, una riflessione critica sul ruolo del volontariato, la denuncia delle mancanze e delle colpe dell’informazione televisiva e molto altro. Con una capacità di sintesi invidiabile, l’autore offre uno spaccato, anche in chiave di evoluzione storica, dei diversi soggetti che popolano la realtà del carcere. Di particolare interesse sono poi i capitoli dedicati rispettivamente alla polizia penitenziaria e ai garanti dei detenuti. Nel primo si evidenziano le contraddizioni di un corpo di polizia che, pur relativamente giovane – la sua nascita risale alla riforma del 1990 –, ha assunto rapidamente un ruolo di primo piano all’interno dell’amministrazione, ma al tempo stesso non riesce a garantire ai suoi appartenenti condizioni di lavoro dignitose.
Insomma, per gli agenti prestigio e riconoscimenti economici, ma poca formazione e quasi nessuna assistenza psicologica. Eppure è ormai ben noto il preoccupante fenomeno dei suicidi tra questi lavoratori. Nel secondo si racconta come, in attesa della tanto sospirata nomina di un garante nazionale, stiano proliferando in ogni parte d’Italia garanti regionali, provinciali e comunali. Ferrari ne censisce in tutto 48 già nominati e 5 istituiti ma ancora vacanti. Tra di loro anche alcuni radicali di grande esperienza e sensibilità come Bruno Mellano (Regione Piemonte), Rosanna Degiovanni (Comune di Fossano) e Roswitha Flaibani (Comune di Vercelli). Questo piccolo esercito di difensori civici dei detenuti non è però finora riuscito a conseguire una unità d’azione nei confronti dell’amministrazione penitenziaria, a causa dell’eterogeneità dei profili professionali coinvolti e anche di alcune rivalità personali. Tuttavia l’autore riconosce l’utilità di queste figure, esterne alla burocrazia penale e importanti per integrare l’operato dei magistrati di sorveglianza. Osservazioni acute e precise in ogni aspetto, ma in primo piano ci sono sempre, e non potrebbe essere diversamente, le violazioni dei diritti umani per cui l’Italia è stata ripetutamente condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. L’autore di questo libro non è timido sull’argomento e anzi sottolinea in un apposito capitolo («La tortura nelle carceri italiane», pp. 43-55) la dimensione di tortura sistematica e strutturale che esiste nel nostro sistema penitenziario.
No Prison non è però un reportage giornalistico o un trattato di sociologia, è un manifesto – «Il Manifesto No Prison», appunto (pp. 25-31) –, scritto a quattro mani dallo stesso Ferrari e dal giurista Massimo Pavarini, che chiede l’abolizione del carcere e il ricorso, in alternativa, a forme nonviolente e partecipative di risoluzione dei conflitti. Una proposta estrema, per quanto molto ben argomentata, che avvicina questo libro a un altro fortunato saggio uscito nello stesso periodo: Abolire il carcere di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta (Chiarelettere, 2015). Sono entrambi volumi importanti e sotto alcuni aspetti complementari, perché fondano le loro analisi e le loro conclusioni su una conoscenza approfondita della realtà del carcere, sui numeri freddi e imparziali ma anche sul calore delle vite e delle storie personali. Ci aiutano insomma a esplorare questa terra straniera e a considerare i suoi abitanti non più come alieni, ma piuttosto come concittadini e compagni di lotta.

Di Marco Del Ciello

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