Giustizia, giustizialismo, giustiziati. La questione carceraria fra indifferenza e disinformazione
Si intitola “Dei relitti e delle pene. Giustizia, giustizialismo, giustiziati. La questione carceraria tra indifferenza e disinformazione”, il nuovo libro di Stefano Natoli, già giornalista de Il Sole 24 ore e attualmente volontario nel carcere di Milano Opera. La prefazione del volume, edito da Rubbettino porta la firma di Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano ora europarlamentare. Il volume che arriva in libreria il 22 ottobre è dedicato «all’umanità reclusa, che ha sognato di vivere e ora vive sognando».
Dopo le sommosse dello scorso marzo e la decisione dei magistrati di sorveglianza di mandare ai domiciliari – per ragioni di salute – prima tre condannati al 41bis (di cui due ultraottantenni e malati gravi) e successivamente altri 373 detenuti presenti nel circuito dell’Alta Sicurezza (i magistrati hanno ribadito, giustamente, che tutti i detenuti hanno il diritto di essere curati), la questione carceraria è tornata in primo piano, anche se, purtroppo, soltanto come dato di cronaca e non come ripensamento della funzione dei 190 istituti penitenziari italiani (per fare un esempio, la pandemia ha spinto il Portogallo a legiferare una grazia per i detenuti inclusi nelle categorie più vulnerabili…). E se la Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte condannato l’Italia per le condizioni «disumane e degradanti» delle proprie carceri, viene da pensare che il nostro Paese non abbia compreso il messaggio di Cesare Beccaria, l’illuminista milanese autore del celeberrimo “Dei delitti e delle pene”, circa il senso profondo della pena che – nel Diciottesimo secolo come adesso – deve essere certa, ma anche, e soprattutto, equa ed efficace.
I protagonisti di questo libro, come sottolinea anche Pisapia nella prefazione, sono le persone ai margini della società, «i tanti che entrati nel cerchio, spesso infernale, delle nostre carceri, si trovano spesso a vivere in condizioni disumane e degradanti». I relitti, appunto, che – come scrive Natoli – «hanno navigato nel mare in tempesta della vita e a un certo punto sono andati alla deriva». Ed è significativo che l’autore parli di esseri umani, e non di detenuti, riconoscendo a chi vive in carcere quella dignità di uomini che Papa Francesco continua a sottolineare nei suoi interventi in tema di giustizia. Partendo da un punto di vista laico ed evitando pietismi, buonismi e qualsiasi deriva ideologica, l’autore spiega a chiare lettere l’intento del suo libro: «Il carcere ha a che fare con la sicurezza sociale. E la sicurezza è un bene collettivo, un bene di cui tutti ci dobbiamo occupare e preoccupare. Senza intenti forcaioli, ma con tutta l’umanità possibile. Facendo prevalere la forza della ragione sulla ragione della forza e tenendo sempre a mente che la persona non è – sempre, e comunque – il reato che ha commesso».
Cambiare marcia è possibile. Le soluzioni non mancano. Natoli ne ricorda alcune: misure alternative alla detenzione, anche per ridurre l’intollerabile e pericoloso sovraffollamento, fonte inesauribile si malessere e suicidi di reclusi e poliziotti penitenziari; spazi del carcere a misura d’uomo; ripensamento della sanità penitenziaria (attualmente, in media c’è un medico ogni 315 reclusi); conferma delle tecnologie introdotte durante l’emergenza Covid e loro estensione ai percorsi rieducativi e risocializzanti; sostegno convinto delle attività educative e del lavoro del volontariato: due realtà che contribuiscono a depotenziare quell’anonimìa che secondo l’autore rappresenta «il rischio più grande di tutte le collettività recluse e, allo stesso tempo, garantiscono la funzione costituzionale della pena».
Quello di oggi, sottolinea ancora Natoli, «è un carcere che vìola nei fatti la Costituzione privando le persone recluse di diritti fondamentali quali quelli all’affettività, alla salute, alla sessualità, ma anche al lavoro, uno strumento – quest’ultimo – importantissimo in quanto abbatte il tasso di recidiva, ovvero di ritorno al reato». Un carcere, dunque, che va cambiato in profondità. Un compito certamente arduo in questo momento storico che vede crescere l’ottica giustizialista o pregiudizialmente securitaria di un’opinione pubblica sempre più sottoposta al bombardamento operato da costruttori di paura che seminano allarmismo per alimentare stereotipi e pregiudizi. Un compito arduo, dicevamo, ma comunque non impossibile. E, soprattutto, doveroso. Perché – sono ancora parole dell’autore – «dietro le sbarre, troviamo ancora oggi, in grandissima maggioranza, poveri ed emarginati, persone provenienti da famiglie disagiate, immigrati senza permesso di soggiorno, tossicodipendenti: una varia umanità cui hanno fatto credere, o ha voluto credere, che la furbizia vince sempre».
Un capitolo a parte merita l’ergastolo, in particolare quello cosiddetto ostativo, «alienante e disumano in quanto priva il condannato del diritto alla speranza di un possibile recupero della libertà». Una pena che lo Stato del Vaticano ha abolito nel 2013, su impulso di papa Francesco, sostituendola con la detenzione fino a un massimo di 35 anni.
In realtà, il carcere sembra essere più una “gabbia mentale”, che un reale strumento rieducativo: «Quando sente parlare di carcere la gente ha istintivamente paura e, dominata da questa paura, pensa che le pene non siano mai abbastanza dure, il carcere mai abbastanza chiuso». Ma la semplice punizione («Trattare il male col male, insomma, in una sorta di approccio omeopatico alla giustizia penale») non serve: «Se non ti prendi cura di chi entra in prigione, rischi di perderlo per sempre e di doverne, poi, subire anche le conseguenze. Non gli puoi certamente cambiare il passato, ma puoi senz’altro dargli una seconda occasione perché possa migliorare il suo futuro». Ovvero: «La restituzione del detenuto alla società civile – opportunamente rieducato e in assoluta sicurezza – restituisce alla stessa società la sua funzione civile di punire e allo stesso tempo di rieducare». Si tratta, in definitiva, del concetto di giustizia riparativa, che spinge a “riparare per ripararsi”. Il percorso non sarà certamente facile e la strada risulterà in gran parte in salita. Ma non è una buona ragione per non provare a percorrerla, tenendo presente che l’obiettivo – come ricorda Papa Francesco – è «fare giustizia alla vittima, non giustiziare l’aggressore».
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