Da Le Cronache del Garantista del 9 novembre
Molto di più che un saggio antropologico. “Terra inquieta”, l’ultimo libro di Vito Teti (Rubbettino, pp 485, 18 euro) è una narrazione aperta della calabresità e del sadismo, stracolma di riferimenti (narrativa, storiografia, antropologia, cibi, usanze, fotografia, cinema), con un filo di lirismo. Il distacco dello studioso è il pretesto per fare un’autobiografia cifrata: Teti è specializzato negli studi sulla propria terra, la Calabria. Vuol dire che i suoi studi puntano su un se stesso, che è anche naturalmente un noi. Un noi di calabresi, meridionali, “terroni”, periferici in genere.
E un noi di migranti, anche. Per Teti noialtri al Sud siamo migranti anche quando stiamo a casa. L’erranza era già condizione “strutturale”, ad esempio per i calabresi, ben prima che a inizio Novecento la fame costringesse a partire per l’America. Siamo migranti perché la nostra stessa casa, la terra, non ci dà sicurezza, non è, fisicamente, stabile. La puntuale raccolta di documenti sui terremoti offerta da Teti la dice lunga: i sismi del 1638 tra il lametino e la valle del Grati, del 1659 in Calabria meridionale, del 1783 (con ben cinque scosse di potenza fuori del comune in grado di sconvolgere “il paesaggio agrario, i paesi la cultura, la psicologia della gente”), del 1907, più il terremoto/tsunami reggino del 1908, sono archetipi e simboli di instabilità. Decine (o centinaia) i paesi sfatti e ricostruiti in altri luoghi. Ci si mette anche l’idrogeologia: frane, inondazioni, alluvioni. La Calabria, “terra inquieta”, non è mai stata ferma.
E non sono mai stati fermi i calabresi, sempre costretti e pronti ad andarsene, cambiare paese, ricostruire dal nulla. Un popolo che vive facendo esperienza dello status di “nuda vita” (nuda, nel senso di priva di protezioni sociali) del migrante.
Un fatto singolare: il pensiero europeo novecentesco dell’esistenzialismo della krisis mette al centro delle sue analisi il concetto di “unheimlickeit” (letteralmente: mancanza di casa). E’ il “perturbante” di Freud, è lo “spaesamento” di Heidegger. E’ sentire che l’io manca a se stesso. Teti ci mostra che si tratta di una condizione che i meridionali conoscono per esperienza concreta. Lo “spaesamento” da noi non è spleen (anche, ma non solo) è nelle macerie di un terremoto, o nell’acqua furiosa di un’alluvione che porta via i muri.
Ma i meridionali sono migranti anche perché al netto di cataclismi e catastrofi si sono tradizionalmente spostati molto più di quanto comunemente si creda. Dalle transumanze ai viaggi (a volte lunghi eccome) per necessità lavorative all’interno della stessa regione, la storia del Sud è un campionario di incessanti migrazioni interne. Da rifugiati di guerra a “migranti economici” siamo stati di tutto.
E’ singolare che nonostante questo retroterra di vita e cultura oggi non si riesca ad avviare una discussione pratica e intelligente sul tema migrazioni, stretti come siamo tra identitarismi formato social (“rimandiamoli a casa loro”) e chi fa dell’accoglienza una faccenda ideologica e sottilmente paternalistica.
Tra le varie forme migratorie ce n’è una particolare: quella legata al rito. “L’andare e il tornare li ha fatti Dio”. Stiamo parlando della forma di erranza che si chiama pellegrinaggio: da quello al santuario della Madonna di Polsi e del Pettoruto, alle feste dei santi, la Calabria tradizionale è un incrocio continuo di vie di canti e devozioni, che Teti racconta, anche, con lo sguardo dell’interprete della contemporaneità. Per esempio spiega come le feste tradizionali (oggi spesso animate da chi abita fuori e rientra appositamente per l’occasione) si siano trasformate da esorcismi della morte in esorcismi dell’emigrazione.
E non mancano, pur nel garbo dell’argomentazione, spunti polemici niente male. Teti stronca con decisione l’equazione tarantella=ballo di mafia, luogo comune del provincialismo pseudocolto, e definisce “tendenziosi i ripetuti tentativi di banalizzarla riducendola a ballo degli uomini dell’onorata società”. E in effetti di questa ridicola faccenda dell’antimafia fatta con la lotta alla tarantella non se ne poteva più.
Ma è tutta l’identificazione della cultura popolare con la mafiosità a non andare giù a Teti, che beninteso non è un reazionario né un nostalgico della purezza della vita agro-pastorale. Altro esempio: Teti scrive pagine molto lucide sugli “inchini” di fronte a casa dei boss in occasione delle processioni (si veda il caso Oppido Mamertina, agosto 2014). La responsabilità della degenerazione di certi rituali per lo studioso sta anche nel fatto che la chiesa contemporanea ha svolto un’azione di contrasto alla religiosità tradizionale: “La chiesa in passato ha preferito cancellare usanze e riti tradizionali in nome dell’interiorità e della spiritualità, alle quali però non ha saputo educare; adesso deve porsi il problema del disagio e dello spaesamento”. E in effetti a fare un giro alle feste tradizionali si nota come la chiesa ufficiale faccia di tutto per eliminare le manifestazioni più “chiassose” della religiosità popolare: i balli vengono sostituiti da messe notturne, si viene invitali al silenzio, i canti in dialetto (l’abbiamo visto a Polsi) vengono sovrastati da altoparlanti che diffondono canti “educati”, “normalizzati”, in italiano. La tendenza, diciamolo pure repressiva della chiesa moderna, porta a una distruzione dell’ordine simbolico delle feste, che finiscono per prodursi in una cecità culturale esposta a qualsiasi manipolazione, anche mafiosa.
Insomma, se volete leggere una riflessione finalmente non banale, non liquidatoria e non lamentosa sul tema dell’ identità del Sud, la narrazione inquieta di Teti a riguardo ci sta. Tutta.
di Bruno Giurato
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