Da Il Mattino del 4 ottobre
C’è stato un tempo, tutt’altro che lontanissimo, in cui le sorti del Mezzogiorno sono state «decise» da due banchieri tanto intelligenti quanto lungimiranti.
Accadde pochi anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, quando si incontrarono e diventarono sinergia le idee e il comune sentire del governatore della Banca d’Italia dell’epoca, Donato Menichella, e del presidente della Banca internazionale per la ricostruzione, più conosciuta come Banca Mondiale, l’americano Eugene Black. Fu grazie alla loro sintonia che divenne possibile sostenere con importanti finanziamenti lo sforzo infrastrutturale che il governo italiano aveva previsto al Sud e che ancora oggi resta un esempio di quanto le politiche pubbliche possono incidere sulle sorti di un territorio se ben guidate e orientate. A Black e alla sua storia per tanti aspetti sconosciuta ai più, è dedicato un prezioso contributo letterario, Il banchiere del mondo, firmato da due economisti del calibro di Giovanni Farese e Paolo Savona (con prefazione di Giuseppe Di Taranto, Rubbettino editore, pagg. 165, euro 15). Un libro non solo per addetti ai lavori, che racconta come nacque la «cultura dello sviluppo» ispirata da Black e attraversa anni delicati e al tempo stesso decisivi per le sorti dell’Occidente. I tempi di John Fitzgerald Kennedy, ad esempio, e della sua ormai proverbiale frase a proposito dei banchieri: «Che cos’è una banca? Semplice: è un’istituzione che ti fa credito se hai le prove per dimostrare che non ne hai bisogno».
Parole pronunciate, come ricordano gli autori, per rendere omaggio davanti ai vertici delle più importanti società americane a lui, Eugene Black, un «pescecane della finanza» per dirla con Savona, un uomo di un metro e novanta, di estrema destra, globalizzatore e terzomondista ante litteram, capace di scelte fondamentali per l’economia mondiale: «Il problema è convincere i gruppi dirigenti che possono farcela, illuminare le menti, affinché si convincano che nessun paese è destinato alla disoccupazione», diceva Black, figlio del presidente della Federal Reserve e vice presidente della Chase Manhattan Bank. A capo per 13 anni della Banca Mondiale, creata tra il 1944 e il 1945 (quando la Seconda guerra mondiale non era ancora finita) insieme con il Fondo Monetario Internazionale negli Accordi di Bretton Woods, assicurò al Sud del mondo la linfa vitale degli investimenti pubblici. Mezzogiorno e Italia compresi. Una decisione, per questi ultimi, concordata a Parigi con Menichella, appena un’ora di discussione e una stretta di mano per dire che l’accordo era stato raggiunto. Ha detto Savona: «Ci hanno insegnato un metodo, come si fanno le opere e quali sono i calcoli, se convengono o no. L’altro punto riguardava la capacità degli stipulanti di rimborsare il prestito alla Banca Mondiale». E fu il passaggio dalla lotta alla povertà di vecchia ispirazione a una politica fondata sulla cultura dello sviluppo, che avrebbe portato benefici a tutti e risolto il problema della disoccupazione. Storia di 50 anni fa o poco più. Ma ancora del tutto realizzabile anche oggi, se solo la si volesse riscoprire.
Di Nando Santonostaso
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