Ignazio Giunti. Il nome, ai vecchi appassionati di corse, riporta alla memoria un dolore e un rimpianto. In queste ore, soprattutto: segnano 50 anni esatti dalla morte. Buenos Aires il posto, la pista. Campionato Mondiale Marche, vetture a ruote coperte, Sport e Prototipi protagonisti di un’avventura meravigliosa in alternativa alla F.1. L’ incidente, visto allora, rivisto in continuazione, fa sempre male al cuore. Il francese Jean Pierre Beltoise che spinge la sua Matra senza più benzina, poco prima del rettilineo d’arrivo. Cerca di attraversare la pista diretto ai box, nessuno lo ferma, interviene. Giunti guidava la nuova Ferrari 312 PB, era in testa alla corsa, stava doppiando un’altra Ferrari, la mastodontica 512 guidata da Mike Parkes. La sua visuale: coperta. Parkes riuscì a scartare verso sinistra all’ultimo istante, Giunti colpì in pieno la Matra, ferma come un macigno in mezzo all’asfalto. Morì sul colpo ed è una consolazione amara: la vettura prese fuoco, il corpo completamente ustionato, Arturo Merzario, al quale Giunti avrebbe ceduto il volante il giro successivo, attonito e impotente davanti alla Ferrari divelta e in fiamme. Una tragedia assurda, una morte evitabile.
Chi era
Fu intensa la polemica, Beltoise se la cavò con una squalifica, fu l’inizio di un lungo percorso alla ricerca di una maggiore sicurezza in pista. Sì, certo ma siamo alla seconda consolazione debole di fronte alla fine di un ragazzo dolce nei tratti, nei modi, forte al volante. Una promessa sulla quale gli appassionati italiani avevano già scommesso, un pilota che piaceva a Enzo Ferrari. Era nato a Roma il 30 agosto 1941. Nobile la famiglia, figlio del barone Pietro e della contessa Maria Gabriella San Martino di Strambino. La sua storia raccontata in un libro colmo di attenzione e tenerezza, scritto dal nipote, Vittorio Tusini Cottafavi («Ignazio Giunti. Un pilota, un’epoca», Rubbettino Editore); la velocità, una calamita azionata da ragazzino, di nascosto dai genitori; il circuito di Vallelunga una palestra nella quale imparare, fare il matto, vincere. Con la sua Giulietta TI blu, per cominciare, per farsi notare dall’Alfa Romeo, inserito in una banda di ragazzi in cerca di gloria e adozione. Enrico Pinto, Spartaco Dini, Andrea De Adamich, Nanni Galli, con il quale Giunti fece a sportellate, fece amicizia e poi coppia fissa per le gare di durata. Radunati tutti sotto il marchio Autodelta, l’emanazione agonistica della Casa milanese, in gara con le indimenticabili GTA. Macchine che ancora adesso portano addosso i tratti, lo spirito di un tempo intero e felice. Anni Sessanta: energia ed eleganza, la guerra ormai lontana. Ingazio: mocassini e camicia azzurra, il ciuffo castano, una naturale gentilezza, aggressività consegnata alla pista: campione europeo della montagna 1967, campione italiano vetture Sport ‘68 con la nuova Alfa 33, quarto a Le Mans, secondo alla Targa Florio con ai piedi le scarpe fatte su misura da Ciccio, l’artigiano di Cefalù che, grazie a lui, divenne il «calzolaio» dei campioni.
In F1
Titolo italiano assoluto 1970 quando era ormai passato alla Ferrari, aveva vinto a Sebring e in Sudafrica, aveva debuttato in F.1. Quattro GP, un quarto posto a Spa, la sua prima apparizione, Ickx e Regazzoni compagni di squadra, la 312B tra le mani. Un casco originalissimo, fatto dipingere da Mara, la sua fidanzata, con una “M” stilizzata sul frontale. Il 1971 doveva essere l’anno decisivo. Correre in F.1 non più «a gettone» e intanto vincere nel Mondiale Marche. Prima gara dall’anno in Argentina. L’ultima sua. Eugenio Castellotti, Lorenzo Bandini, Ludovico Scarfiotti, Ignazio Giunti. La lista di eredi perduti di Alberto Ascari sembrava interminabile, insopportabile. L’epitaffio, doloroso e malinconico, lo scrisse Enzo Ferrari: «Avrei potuto raccontare molto di più di Ignazio se la disgrazia di Buenos Aires non ce lo avesse portato via. Aveva talento, tanta passione ed eravamo in molti a volergli bene».
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