Lo spazio si presenta come la nuova frontiera della competizione geopolitica, e oltre l’atmosfera terrestre si disegnano rivalità e alleanze destinate a ripercuotersi sui rapporti di forza globali. Ne parliamo approfonditamente in questo dialogo con l’ingegner Marcello Spagnulo, esperto con alle spalle una carriera pluridecennale nel settore aerospaziale e autore del saggio “Geopolitica dell’esplorazione spaziale – La sfida di Icaro nel terzo millennio”, edito da Rubbettino.
Ingegner Spagnulo, grazie mille per la sua disponibilità. Nel suo libro Geopolitica dell’esplorazione spaziale – La sfida di Icaro nel terzo millennio lei scrive che “pragmatismo e Realpolitik si celano dietro l’iconografica visione della conquista dello Spazio”. Possiamo ritenere che le prime due componenti sono, nelle strategie dei governi, sempre più sovrastruttura? E che lo sdoganamento del ruolo strategico dello spazio proceda in parallelo, anche nella narrazione mediatica, con il sempreverde fascino dell’esplorazione?
Sì indubbiamente è così. Prendiamo ad esempio ciò che sta succedendo proprio in questi giorni negli USA e che sta avendo grande risalto sui quotidiani e sulle TV. Il Presidente Trump ha appena proposto per il 2021 un aumento del budget della NASA di oltre 2,5 miliardi di dollari rispetto allo scorso anno, portandolo a 25 miliardi dai 22,5 del 2020. L’obiettivo dichiarato è quello di rilanciare l’esplorazione spaziale americana del XXI secolo tornando sulla Luna per poi sbarcare su Marte. Il programma si chiama Artemis e prevede il ritorno dell’uomo sulla Luna entro il 2024, la realizzazione di insediamenti permanenti entro il 2030 e poi lo sbarco su Marte nel 2030. Tutti obbiettivi dal fascino onirico, ambiziosi, stimolanti ma che mascherano quella realtà politica che nel libro chiamo con il termine “tecnopolitica”, un connubio tra pragmatismo e Realpolitik che permea l’essenza stessa dell’esplorazione dello Spazio. La sfida terrestre degli USA con la Cina e con la Russia si sposta nello Spazio eso-atmosferico al punto che gli americani devono spostare il loro “Higher Ground” verso la Luna dato che Pechino diventa protagonista nell’orbita bassa della Terra con una sua stazione spaziale simile alla odierna ISS, anche se più piccola. Il programma lunare Artemis sposta il baricentro statunitense spaziale più in alto di quello cinese, e nella narrazione pubblica ciò viene rappresentato al mondo come la nuova frontiera dell’esplorazione spaziale del XXI secolo, il nuovo sogno spaziale.
Gli Stati Uniti, che hanno duellato con l’Unione Sovietica nella prima corsa allo spazio, sono ora attivi nella partita geopolitica per il suo controllo. Come giudica le mosse del governo Usa negli ultimi anni, dalla creazione delle Space Forces al nuovo incremento di budget per la Nasa citato sopra?
In realtà, gli USA non dominarono compiutamente lo Spazio intorno alla Terra, e quindi il pianeta stesso, nel 1969 quando sbarcarono sulla Luna, dato che quell’impresa sancì la loro indubbia superiorità tecnologica ma non il vero dominio spaziale. Quello lo ottennero negli anni ’90 quando realizzarono la Space Defence Initiative SDI, quel sistema integrato di satelliti, missili, radar e centri di controllo progettato negli anni ’80 e noto con il nome di un po’ hollywoodiano di “Scudo Stellare”. Lo SDI fu provato operativamente nel corso del brevissimo conflitto in Irak del 1991, in cui i militari statunitensi impiegarono per la prima volta sul campo più di cinquecento nuovi tipi di armamenti quasi tutti basati su un’inattaccabile costellazione di satelliti nello Spazio e una rete di computer a terra che insieme formavano la cosiddetta «Information Warfare». Dal 1991, il mondo comprese che nessun paese sarebbe stato geopoliticamente rilevante e in grado di sfidare gli Stati Uniti senza un’adeguata tecnologia spaziale e cibernetica. E questo dominio, durato una ventina d’anni, ora è sotto attacco. La Russia sviluppa missili ipersonici e la Cina lancia a ritmo continuo missioni spaziali sviluppando tecnologie avanzate – si pensi alla missione sul lato nascosto della Luna – che hanno applicazioni “dual-use”. Quindi per gli USA è esiziale mostrare, anche mediaticamente, che la “Space Force” non è una trovata di Hollywood ma il proseguo operativo dello Scudo Stellare degli anni ’80. E come non fu una mossa pubblicitaria allora, non lo sarà adesso. I fondi per la Forza Armata del Pentagono non saranno noti al pubblico mentre quelli della NASA sì; e il loro visibile incremento darà il messaggio, nemmeno troppo subliminale, che “se investo di più nell’esplorazione spaziale civile, in quella militare farò molto di più”. È un messaggio forte per tutti, anche per gli alleati europei e giapponesi.
Anche l’ESA ha ricevuto un incremento considerevole della sua dotazione finanziaria. Come giudica le politiche europee in materia?
Come ho scritto nel libro, mi sembra che in Europa si stia materializzando quell’ambigua contraddizione di un continente nano politicamente e gigante economicamente. La seconda area mondiale di libero scambio con oltre mezzo miliardo di abitanti e un prodotto interno lordo di oltre sedici trilioni di dollari, sconta un’inconsistente integrazione politica e militare. In teoria, la Commissione di Bruxelles – che oggi si candida a gestire le politiche spaziali proprio al posto dell’ESA peraltro – può imporre regole e ammende alle Corporations americane e cinesi, ma in pratica l’Europa non possiede giganti tecnologici che plasmano il futuro del mondo. E, soprattutto, le sue flotte, i suoi eserciti, le sue forze aeree e spaziali sono frammentate tra i vari paesi, e non sono comparabili con quelle dei suoi avversari geopolitici. Solo la Francia persegue il suo ruolo di leader continentale, forte del suo arsenale nucleare. Infatti, anche Parigi punta ad avere la sua Forza Armata Spaziale come gli USA, e nella sua strategia di Difesa Spaziale, pubblicata sui siti del Governo, dichiara di voler realizzare nello Spazio dei veri e propri sistemi d’arma. Però, dato che i fondi a disposizione non saranno paragonabili a quelli statunitensi o cinesi, immagino che vorrà fare sinergia anche con quelli dell’ESA e della UE e a quel punto sarà interessante verificare l’atteggiamento di Germania e Italia, i due altri paesi grandi contributori. Si pensi a esempio che nel corso dell’ultimo vertice ministeriale dell’Agenzia Spaziale Europea ESA tre mesi fa, i governi hanno finanziato i programmi spaziali per 14,4 miliardi di euro, il 36% in più rispetto al triennio precedente, e la parte del leone l’hanno fatta la Germania – che ha investito 3,3 miliardi, quasi il 30% in più della Francia – e l’Italia che ha contribuito con 2,3 miliardi, il più alto budget della sua storia pari al 72% in più rispetto a tre anni. Le cifre sono imponenti ma globalmente gli investimenti non daranno comunque all’Europa un vantaggio competitivo né la avvicineranno agli USA o alla Cina, senza una strategia comune che focalizzi gli sviluppi e i suoi utilizzi. Forse, ma questa è la mia opinione, sarebbe meglio aderire a una strategia spaziale in ambito NATO sviluppando tecnologie complementari e funzionali a quelle USA, ma non mi pare che questa sia la direzione.
L’Italia, in questo contesto, si posiziona a cavallo tra UE e Nato, in maniera analoga a quanto fatto nel settore della Difesa. Dove ritiene ci siano, per noi, i maggiori spazi di manovra?
In questo contesto il nostro paese ha sempre avuto un ruolo importante e crescente in quanto terzo contributore dell’ESA, sebbene finanziariamente distante da Francia e Germania. Oggi però, il gap tra Parigi e Roma si è ridotto sia sul piano finanziario – dato che oramai nell’Agenzia Spaziale i due paesi concorrono con percentuali prossime tra loro, rispettivamente al 20 e 15 per cento – e sia sul piano tecnologico. Si pensi per esempio al lanciatore Vega i cui miglioramenti previsti dalla nostra industria hanno causato reazioni politiche a Parigi che teme una potenziale concorrenza con l’Ariane in segmenti promettenti di mercato come le costellazioni di piccoli satelliti. Personalmente, ritengo possano esserci spazi di manovra interessanti per sviluppare sistemi spaziali innovativi con tecnologia italiana, a esempio in ambito NATO, ma per farlo occorre una governance nazionale coesa e integrata – come avviene in Francia – che attui linee strategiche elaborate al più alto livello governativo. In realtà, sono stati fatti passi in avanti su questo aspetto con la Legge 11 del 2018 che riordina l’ASI, ma direi che c’è necessità di completare il percorso. Ciò aiuterebbe anche a ottimizzare gli spazi di manovra nell’ambito della stessa ESA dove indubbiamente il peso politico di Parigi e Berlino è assai influente, ma che oggi visto il nostro investimento finanziario merita un riequilibrio.
Veniamo ora alla Cina. Pechino ha dimostrato negli ultimi anni un potenziale balistico e esplorativo ragguardevole: quale sono state, a suo parere, le tappe salienti della rincorsa cinese allo spazio e come si posiziona Pechino attualmente in relazione a Usa ed Europa?
La Cina ha avviato il proprio programma spaziale negli anni della Guerra Fredda essenzialmente basandosi su un trasferimento tecnologico da parte della Russia più che su un vero e proprio programma autarchico; cosa che invece cominciò a grandi passi dagli anni ’80. Indubbiamente una tappa saliente fu quella del 2003 quando fu lanciato in orbita il primo astronauta cinese. Da quel momento la trasformazione di Pechino in una vera superpotenza spaziale poteva dirsi compiuta, e da lì è stato un susseguirsi di continui sviluppi. Oggi per esempio, la flotta di lanciatori spaziali che i cinesi hanno in dotazione è incredibile per quantità e qualità. Pechino ha quattro basi di lancio sulla terraferma ma sta costruendo isole artificiali dove situare altre rampe. È come se si stesse dotando di una infrastruttura diffusa simile a quelle aeroportuali, ma dedicata ai razzi spaziali. Questo dà l’idea della visione che c’è dietro. Riguardo alla postura con gli USA e con l’Europa, direi che si tratta di due posizioni ben diverse. Con gli Stati Uniti c’è un aspro confronto geopolitico e quindi ne consegue un serrato sviluppo tecnologico e militare in cui l’esplorazione dello Spazio è un visibile elemento di contrapposizione. Anche se non escludo sorprese, nel senso che l’amministrazione Trump ci ha abituato a serrati scontri seguiti poi da aperture e accordi. Per questo non mi sento di escludere, in tempi neanche lontanissimi, che si possa configurare una qualche sorta di cooperazione spaziale persino tra Pechino e Washington, un po’ come avvenne nel pieno della Guerra Fredda con il programma congiunto Apollo-Soyuz. Con l’Europa il discorso è ben diverso. Gli europei tendono intimamente a considerare la loro tecnologia spaziale superiore a quella degli altri paesi, esclusi gli USA ovviamente, ma sottovalutano il fatto che Pechino ci ha surclassati da anni quanto a tecnologie realizzative. Il punto non è la competenza europea, che esiste e sarebbe in grado di realizzare sistemi competitivi, quanto la volontà politica comune di realizzare progetti strategici per contrastare l’espansionismo geopolitico dei paesi competitori sulla Terra e quindi anche nello Spazio. Per esempio, per lanciare i satelliti Galileo ci sono voluti più di vent’anni e fondi a macchia di leopardo (nei primi anni duemila furono utilizzati persino dei finanziamenti comunitari destinati all’agricoltura per mantenere in vita il progetto) e alla fine con il sistema oggi in orbita gli europei – a parte francesi e inglesi direi – non hanno comunque mezzi tattici comuni, parlo di aerei, navi, missili, con cui affrancarsi dal GPS americano per i segnali stabili e precisi di posizionamento e localizzazione.
Cosa hanno da dire le altre nazioni con grande capitali tecnologici e tradizione esplorativa, come Russia, Giappone e Israele, in questo contesto di competizione spaziale? C’è spazio per nuovi entranti?
La Russia è una superpotenza spaziale e cibernetica imponente, e per l’Europa, oltre che per gli USA, sarebbe un rischio se essa si consolidasse in un blocco militare con la Cina perché le due flotte satellitari messe insieme si avvicinano a quella USA e soverchiano totalmente quelle europee. Mosca poi sta sviluppando i missili ipersonici che renderanno obsolete le attuali contromisure missilistiche e ha ricostituito la sua flotta spaziale, dopo un paio di decenni di declino industriale. Di sicuro, sarà un attore globale temibile. Il Giappone negli ultimi dieci anni ha completamente rivoluzionato la propria politica spaziale, arrivando persino a modificare la sua Costituzione per potersi dotare di nuovi sistemi spaziali per specifici scopi militari. Una rivoluzione copernicana nell’assetto politico di Tokyo, chiaramente dettata dal riarmo cinese e dalla crescente minaccia nord-coreana. L’Agenzia Spaziale giapponese, che dipendeva dal ministero per l’Educazione e la Ricerca, oggi dipende da un ufficio speciale del primo ministro che gestisce i programmi d’esplorazione spaziale in primis come uno strumento strategico e non più solo scientifico. Non a caso, proprio nel giorno del primo storico incontro a Singapore tra il presidente Trump e il coreano Kim Jong-Un, Tokyo lanciò nello Spazio un satellite spia, quasi a sottolineare la sua invisibile presenza nell’area. Israele, che ha sempre contrastato ogni ambizione di crescita militare degli stati arabi e di Teheran in particolare, possiede un arsenale atomico e dispone dei missili Jericho con cui lanciare le bombe nucleari e degli Shavit per i propri satelliti spia. Gli israeliani hanno un’industria spaziale di prim’ordine. Nel 2012, il nostro Ministero della Difesa ha acquistato da Tel Aviv un satellite spia “chiavi-in-mano” che fornisce fotografie con risoluzioni al centimetro. Sarebbe auspicabile una cooperazione sempre più stretta tra la nostra Agenzia spaziale e quella israeliana, e qualche passo in avanti c’è stato. Da ultimo considererei anche l’India nel novero delle potenze spaziali. New Dehli ha perseguito sin dagli anni ‘70 un proprio programma di esplorazione dello Spazio grazie al sostegno tecnologico di Mosca che aveva interesse a sottrarla all’influenza occidentale e a farne un’area di contenimento verso Pechino. L’ente spaziale indiano possiede avanzati centri di ricerca e di produzione per lanciatori e per satelliti, e spende più di un miliardo di dollari l’anno per mandare in orbita sistemi interamente progettati e costruiti dai propri tecnici. Nel 2007, l’allora ministro della Difesa affermò che «nello Spazio potrebbe essere difficile distinguere distintamente tra usi pacifici e militari», confermando di fatto come il programma spaziale di New Dehli, in generale poco pubblicizzato nei consessi internazionali, aveva sempre avuto una forte connotazione militare. A riprova della crescente assertività militare spaziale, l’India ha persino compiuto nel 2019 un test di abbattimento di un satellite in orbita diventando la quarta superpotenza spaziale a sviluppare una simile capacità tecnologica. E proprio per bilanciare quest’aspetto, spesso i leader politici indiani hanno enfatizzato i successi delle loro sonde interplanetarie, annunciando persino ambiziosi programmi di sbarchi umani sulla Luna o Marte, così da stimolare l’orgoglio nazionale e dare al mondo un’immagine di superpotenza spaziale. Il “panorama” chiamiamolo così dell’esplorazione spaziale si cristallizza con questi attori nel 2020 e a mio avviso difficilmente entro la metà di questo secolo assisteremo a un suo aumento.
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