da Il Foglio del 16 Aprile
Come i siciliani Riina, Bagarella e Provenzano, o il pugliese Giuseppe Pacilli (conosciuto come il Provenzano del Gargano), anche il boss camorrista Michele Zagaria si trova vicino casa, quando viene catturato nel dicembre 2011. I boss vengono sempre arrestati a pochi passi dal luogo in cui sono nati. Non riescono
ad allontanarsi daI proprio nido, e se non fosse criminale, sarebbe perfino lirica quest’immagine dei boss di scoglio, così attaccati alle proprie pietre da non poterle lasciare. Mantovano e Airoma, non sono certo dei poeti, piuttosto dei chirurghi e nel mettere mano al nocciolo esistenziale della criminalità, hanno saputo svelare il contesto e mettere mano al tabù: raccontare in che modo la società riservi il proprio beneplacito al male. Stanno nei paraggi di casa, i criminali, perché sono protetti dall’ambiente, certo, ma anche perché quell’ambiente lo sentono proprio più di ogni altro. Se la madre li chiamasse, potrebbero rispondere. La scuola dei figli è a poche centinaia dí metri. C’è un movente sentimentale nell’attaccamento simbiotico dei mafiosi a gente e luoghi, con timbro da sceneggiata napoletana.
Quando lo prendono, Zagaria si trova nel centro di Casapesenna, il suo paese, in un rifugio sotterraneo di cemento, con due schermi piatti da 55 pollici. Non guardava la tv, osservava piuttosto i movimenti dell’agorà di Casapesenna. Sorvegliava i propri presidi e i loro confini, ma dalla tv. Vi si immaginava dentro, protagonista del brulichio camorristico e della scena. Il boss amministrava il potere grazie a delle protesi televisive, le videocamere fissate in ogni angolo del paese, e come il Buddha osservava la sua proiezione sociale in loop. Zagaria lo prendono anche grazie al “modello Caserta” messo a punto dall’allora ministro dell’Interno, Roberto Maroni. Che ogni mese si recava in Campania e riuniva i vertici delle forze dell’ordine e della procura. Serviva a prendere decisioni: rinforzare i controlli e le azioni di polizia, sequestrare beni, arrestare latitanti. Un modo tutto speciale, quello di Maroni, di re-censire il “Gomorra” di Saviano: arrestando i personaggi del libro.
Mantovano era a quel tempo sottosegretario all’Interno, girava l’Italia della mafia e della camorra, e con Domenico Airoma racconta che il mafioso non si sposta, regna come un signore che domina il suo borgo. Il mafioso c’è e la gente lo deve sentire. Un’immobilità attiva che unita all’inspiegabile imprendibilità (è a casa sua, tutti lo sanno, nessuno lo arresta), contribuisce alla mitizzazione del criminale.
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