La progressiva involuzione del partito Fidesz, “Unione Civica Ungherese”, ha stupito molti osservatori. Il fatto è che in troppi ricordavamo, con stessa sigla e stessa leadership, ma con diverso nome, ciò che il partito rappresentava all’inizio degli anni ‘90, nella fase di transizione alla democrazia del paese magiaro.
In “L’Ungheria della riforma economica”, pubblicato nel 1991 da Databank, definivo l’allora “Unione dei Giovani Democratici” uno “schieramento alternativo e anticonformista che vanta il più giovane gruppo parlamentare al mondo, età media 28 anni”. Scrivendo dei comportamenti, evidenziavo: “Le sue campagne si sono dirette in particolare in favore della democrazia e di libere elezioni, del dissolvimento dei blocchi militari, del raggiungimento dell’unità politica e culturale dell’Europa…”. Quantum mutatus ab illo, direbbe un Virgilio dei giorni nostri.
Così cambiata Fidesz in trent’anni, che il Parlamento Europeo ha definito il suo governo, il 15 settembre, non più garante di un’autentica funzionante democrazia, ritenendo l’Ungheria, “un regime ibrido di autocrazia elettorale”, nel quale si tengono regolari elezioni ma senza rispetto per le regole democratiche di base. I parlamentari europei in base al rapporto presentato dalla deputata verde francese Gwendoline Delbos-Corfield (433 voti favorevoli, 123 contrari e 28 astenuti), hanno puntato il dito accusatorio sul primo ministro Viktor Orbán, dichiarando che i governi da lui presieduti dal 2010, hanno realizzato “sforzi deliberati e sistematici” per attaccare e indebolire i valori costitutivi dell’Unione Europea: la libertà di espressione personale e dei media, l’autonomia dell’insegnamento universitario, l’indipendenza della magistratura, i diritti LGBTIQ, la protezione delle minoranze e dei richiedenti asilo, in primo luogo.
Pensando al tormentato novecento ungherese, all’amputazione della patria subita al tavolo di Versailles e negli accordi tra le potenze al Trianon di Parigi, alla successione di regimi nazionalisti, fascisti e comunisti subiti nei decenni successivi, con le sanguinose giornate del novembre 1956 in primo piano, viene da chiedersi come e perché il paese tricolore possa ritrovarsi protagonista di una ricaduta all’indietro così clamorosa, quasi che i demoni del proprio passato non possano mai terminare di tormentare le nazioni.
Perdita di memoria diranno taluni, mentre altri richiameranno le identità profonde e immutabili dei popoli, nel caso ungherese il conservatorismo contadino e cristiano unito alla rivendicazione identitaria di una nazione ripetutamente martoriata e soffocata dalla storia. Ambedue le interpretazioni risultano veritiere, il che fa ritenere che – almeno nel breve – non si assisterà a nessun revisionismo da parte di Budapest.
In quanto alla perdita di memoria, John Kenneth Galbraith ironizzava sul fatto che “Niente è così ammirevole in politica come la memoria corta”. Una battuta che non voleva mascherare i danni che fa la perdita di memoria. Invece di brandire il nazionalismo a difesa di un’identità che la storia ha martoriato, gli ungheresi dovrebbero ricordare come sia stato il nazionalismo aristocratico magiaro il non ultimo responsabile di tante pagine tragiche della storia patria. Se lo facessero, potrebbero meglio comprendere il messaggio che il Parlamento Europeo ha loro inviato.
La risoluzione del Parlamento non è vincolante né produce misure dell’UE contro Budapest, ma ha valore morale e politico. Tant’è che l’eurodeputata ungherese, Kinga Gál, di Fidesz, ha precisato che si tratta di un errore, che guasterà il dialogo in corso tra UE e Budapest, per risolvere le differenze. L’europarlamentare rivendica che il governo è democraticamente eletto (la stragrande maggioranza dei parlamentari europeidissente!) e non accetta diktat che suonano come un attacco alla nazione ungherese, più che al governo.
Non si è trattato di posizione isolata. La minoranza parlamentare di estrema destra (che include gli italiani Fratelli d’Italia e Lega) ha fatto scrivere in fondo al rapporto adottato dal Parlamento Europeo: “Questo testo è un altro tentativo da parte dei partiti politici del federalismo europeo, di attaccare l’Ungheria e il suo governo conservatore democristiano per ragioni ideologiche. Questo rapporto è una deludente pagina del lavoro del Parlamento Europeo, specialmente in un momento nel quale l’unità dell’Unione Europea dovrebbe essere più importante che mai”.
Due doverose annotazioni sulla nota a fondo deliberazione. Fantasiosa la definizione di “democristiano” per un governo espresso dal movimento politico uscito nel marzo 2021 dal partito democristiano europeo (PPE), per anticiparne l’espulsione. Veritiera l’individuazione della netta opposizione tra modello federale e modello nazionale dell’Unione.
È qui il nodo della questione. Lo si è visto rispetto al trattamento delle persone in fuga da guerre e autoritarismi che bussano alla porta dell’Unione. I “federalisti” propongono un modello condiviso di ripartizione e collocamenti gestito dalla Commissione, i “nazionalisti” vogliono affidarsi al volontarismo nazionale.
Sulla posizione ungherese, la più chiusa, si è scritto, in questa rubrica, di come sorprenda l’atteggiamento del governo di un paese che tra il 1956 e il 1957 fece uscire circa 200.000 richiedenti ospitalità, accolti a braccia aperte ovunque, anche in Italia. Su quella vicenda viene da ricordare un tenero e significativo libro di Katalin Mezey, Lettere a casa, appena uscito da Rubbettino.
Narra la storia della quattordicenne Gabi e di sua madre Szilvi, costrette a rifugiarsi dalla sorella di Szilvi, nell’allora Germania occidentale. Gabi, senza più amici, frequenta il liceo senza conoscere il tedesco, riemergendo poco alla volta dalla disperazione nella quale si è trovata nei primi giorni. Si fa compagnia scrivendo all’amica Ili, rimasta a Budapest. Non spedirà mai le lettere, per timidezza e perché da subito decide che saranno la ragione per rivedere l’amica del cuore. Tormenti, speranze, illusioni, si mescolano in Gabi al ricordo della patria e al benvolere nei confronti di chi l’ha accolta e la sta formando senza nulla chiederle in cambio.
Il libro è uscito in ungherese nel 2017. Insegna come essere patrioti evitando la trappola del nazionalismo, e come l’allora Comunità Europea ispirava la solidarietà e l’accoglienza con gli ungheresi vittime dell’Urss. “Il nazionalismo”, disse il presidente francese Mitterrand nell’ultimo discorso al Parlamento Europeo, consapevole che un cancro se lo stava divorando, “è la guerra” Visto in Europa: allora con l’aggressione del nazionalismo serbo agli altri popoli della Iugoslavia, oggi con l’aggressione del nazionalismo russo all’Ucraina.