“Lettera ai politici sulla libertà di scuola”, edito dalla Rubbettino a firma del filosofo Dario Antiseri e della studiosa sr Anna Monia Alfieri, non poteva avere data di pubblicazione più azzeccata, nel contesto del governo gialloverde che vede l’Istruzione bancomat per altri ministeri, altre riforme.
Nelle penultime stagioni — da Berlusconi IV a Letta — scuola e università con i loro 56 miliardi di euro di bilancio annuale sono state oggetto di diverse spending review. Ora, ai tempi del governo gialloverde, subiscono nuovi tagli che, per ammissione dello stesso ministero, «potranno contribuire a finanziare le altre importanti misure annunciate dal Governo». Siamo di fronte ad un chiaro attacco alla scuola, perché avere cittadini che “sanno” e “pensano” risulterebbe di difficile gestione…
E’ tipico dei poteri deboli impedire la libertà di scelta educativa. Sintomatico, soprattutto se si considera a) che siamo già oggi, in Europa, uno dei paesi che spende meno in istruzione, il 4,9% del Pil, il 7,4% della spesa pubblica complessiva: quattro punti abbondanti sotto la media Ocse; b) che siamo penultimi nell’area Ocse, davanti al solo Messico, col nostro 18% di laureati sul totale della popolazione, contro il 37% del dato medio e il 46% di Regno Unito e Usa; c) che siamo penultimi in Europa per il numero di laureati, 26 ogni 100, nella fascia d’età tra 30 e 34 anni e con un abbandono universitario che si aggira attorno al 38%; d) che il tasso di passaggio dalle scuole superiori alle università nei dieci anni tra il 2005 e il 2015 è calato di 24 punti percentuali (dal 73% al 49%); e) che nello stesso periodo le immatricolazioni sono state 65mila in meno.
In questo scenario si impone l’autorevolezza della conoscenza che chiede conto al governo della ragione per cui l’ideologia debba essere pagata dai cittadini. Lo studio sul Liceo scientifico Leonardo da Vinci condotto da autorevoli economisti e la supervisione di Deloit ha confermato che un allievo della scuola pubblica statale costa, a chi paga le tasse, 10 mila euro annui, mentre a fronte del milione di allievi che frequentano la scuola pubblica paritaria lo Stato destina solo 500 euro pro capite. Uno Stato che distrugge la scuola non lo fa mai per ragioni economiche, come è stato ampiamente dimostrato, ma solo perché da una scuola funzionante ha solo da perdere.
«I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli». È questo il principio stabilito nell’Articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948), principio che l’Unione Europea ha fatto proprio, con tutta chiarezza, nel 1984 con la Risoluzione sulla libertà di insegnamento, che all’art. 1, comma 6 dichiara: «La libertà di insegnamento e di istruzione deve essere garantita»; comma 7: «La libertà di insegnamento e di istruzione comporta il diritto di aprire una scuola e svolgervi attività didattica»; comma 8: «Gli istituti di insegnamento fondati per libera iniziativa, che soddisfino alle condizioni oggettive indicate dalla legge per il rilascio dei diplomi, sono riconosciuti dallo Stato.
Essi attribuiscono i medesimi titoli delle scuole statali»; comma 9: «Il diritto alla libertà di insegnamento implica per sua natura l’obbligo per gli Stati membri di rendere possibile l’esercizio di tale diritto anche sotto il profilo finanziario e di accordare alle scuole le sovvenzioni pubbliche necessarie allo svolgimento dei loro compiti e all’adempimento dei loro obblighi in condizioni uguali a quelle di cui beneficiano gli istituti pubblici corrispondenti, senza discriminazione nei confronti dei gestori, dei genitori, degli alunni e del personale». Ebbene, in Italia – a differenza degli altri Paesi europei – il principio-diritto della libertà di scelta della scuola è sistematicamente ignorato: la scuola libera è solo libera di morire. Con grave danno della stessa scuola statale, e ciò per la semplice ragione – sono, queste, parole di Gaetano Salvemini – che «la scuola pubblica non avrebbe molto da guadagnare dalla scomparsa della scuola privata», giacché questa «può rappresentare sempre un pungiglione ai fianchi della scuola pubblica, e obbligarla a perfezionarsi, senza tregua, se non vuole essere vinta e sopraffatta».
Eliminare l’introduzione di linee di competizione nel nostro sistema formativo significa illudersi di poter fare a meno di quella grande macchina di scoperta del nuovo da cui poi poter scegliere il meglio. E, infine, ma prima di ogni altra considerazione, un ineludibile interrogativo: uno Stato nel quale un cittadino deve pagare per conquistarsi un pezzo di libertà è ancora uno Stato di diritto? Da qui l’urgenza di sottoporre all’attenzione dei politici – e in special modo dei nostri governanti –, degli insegnanti e delle famiglie argomenti relativi alle ragioni della libertà di scuola e a concrete e ragionate proposte per realizzarla.
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