Da L’Arena del 26 giugno
Ha un titolo che sa di chilometri macinati. Di Mediterraneo, di polvere e di strade assolate, del desiderio di raccontare un’Italia che non c’è più o che sopravvive in qualche piega dimenticata del Paese e i cui echi cercano voci disposte ad ascoltarne le storie.
Si chiama «Paracarri – Cronache da un’Italia che nessuno racconta» (Rubbettino, 240 pp. 14 euro) il libro di Alessandro Calvi, giornalista e scrittore che riprende un genere ormai desueto, l’inchiesta letteraria, a metà strada tra la cronaca e il racconto. E lo fa per tornare a raccontare la periferia e provare a capire il centro, il Potere, «con Pier Paolo Pasolini sempre in valigia» e il pensiero rivolto a Carlo Levi, Danilo Dolci, Nuto Revelli, e un omaggio a Leonardo Sciascia nel primo capitolo, quello su Mussolinia di Sicilia.
E allora ecco la storia di Mussolinia, la città che avrebbe dovuto dar lustro all’Italia fascista ma che non vide mai la luce se non in qualche fotomontaggio spedito al duce affinché non sospettasse che quella città era soltanto una sua illusione, ed è una storia che dietro le apparenze sembra avere molto in comune con quella del «Gattopardo» di Tomasi di Lampedusa.
E poi, ecco anche certe casette immobili, costruite nel dopoguerra a cavallo tra Puglia e Basilicata, e un paesaggio astratto che testimonia la definitiva sconfitta della civiltà rurale.
Ecco la solitudine esistenziale di Gibellina nella quale il cemento, il vuoto e l’accecante luce bianca raccontano una solitudine che è l’opposto di quanto, poco distante da lì, a Partitico, costruì Danilo Dolci.
Ecco, Matera che, dopo secoli di sonno, rischia improvvisamente d’esser divorata da una modernità che non conosce sviluppo e alla quale nessuno l’ha mai preparata. Ed ecco, infine, l’impasto di lamiera e disperazione delle favelas nascoste nella pancia di Messina e nelle quali vivono gli stessi messinesi, simbolo estremo di un’Italia eternamente provvisoria.
Scorrendo le pagine del libro si entra poi nel bacetto di Vezio, «struttura del comunismo italiano che non c’è più», e che a Roma era noto come il retrobottega di Botteghe Oscure, e si entra anche nei Mas, ovvero i Magazzini allo Statuto, «quattro piani e un sotterraneo dove con pochi spicci si può comprare la felicità, seppure un po’ fanè».
Risalendo la penisola, ecco ancora la piccola Chernobyl italiana di Casale Monferrato, e una Venezia bellissima ma che «s’è fatta conformista, ha abbandonato il piacere per il dovere, è sempre più inutile rappresentazione di se stessa», e «muore sempre più simile alla maschera di Aschenbach agonizzante nell’afa non già di Venezia ma del Lido, sul bordo della laguna, alla periferia della vita».
E poi Milano, dove – racconta Calvi scegliendo una via di mezzo tra il romanzo e la prosa che costringe a leggere tutto d’un fiato – fu installato il primo semaforo italiano: «Lo guardarono attoniti i milanesi quel palo piantato in mezzo alla strada, a due passi dal Duomo, carico di luci intermittenti». E fu l’inizio dell’unica rivoluzione borghese che questo Paese abbia mai conosciuto, così che il coro di clacson che da allora ci accompagna «divenne la nostra innocua Marsigliese».
Luoghi, storie, voci, persone: come Pier Paolo Pasolini e il giallo della sua morte e, soprattutto, una storia accaduta molti anni dopo quella notte all’Idroscalo, della quale potrebbe sembrare una tragica appendice; ma anche questa storia, sebbene racconti persino di un nuovo morto che di quella notte di quarant’anni fa sembrava sapere molto, appare dimenticata se non, forse, mai raccontata, per distrazione o per conformismo di chi avrebbe dovuto scriverne.
Da qui il titolo dell’ultimo capitolo: «Contropasolini», durissima invettiva contro gli intellettuali e contro chi oggi pretende di raccontarla, Roma, e con essa il Potere, ma in realtà ne ignora l’anima e le persone che la abitano; chè questa città, per essere davvero conosciuta e non scambiata necessariamente con una grande bellezza, non vuole essere osservata da certi quartieri pesantemente «gentrificati» o da certe terrazze troppo lontane dalla sua carne, ma ha bisogno che ci si immerga nella sua polvere. Metaforicamente macinando chilometri, e inseguendo i paracarri. “
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