Da Corriere del Mezzogiorno del 19/10/2013
Consenso alle mafie, il Sud ha molto di cui vergognarsi Parola di Mantovano
A volte i libri sulle mafie generano, soprattutto al Sud, sconforto e voglia di andar via. La nostra opera invece ha una pars construens per combattere culturalmente e liberare l’Italia dalle organizzazioni criminali»: Alfredo Mantovano, magistrato della Corte d’Appello di Roma, già parlamentare di An e Pdl e sottosegretario agli Interni, insieme al collega Domenico Airoma (esperto di contrasto a camorra e ‘ndrangheta) ha curato il saggio I(r) rispettabili. Il consenso sociale alle mafie (pp. 155, euro 14, Rubbettino). «Ai giovani e agli studenti lanciamo un messaggio di speranza », ha spiegato il magistrato salentino. “I(r)rispettabili”, un ossimoro per definire una analisi del crescente consenso sociale delle mafie. Perché questo titolo? «La grafica in copertina si presta a una doppia lettura (la prima erre è cerchiata di rosso ndr). In tante aree del Sud vi è un’aura di rispettabilità attorno alle organizzazioni mafiose. Per le persone oneste questo è inaccettabile. La linea di confine tra chi lavora perché le istituzioni abbiano consenso sociale e chi con i suoi comportamenti presta il fianco alla legittimazione delle mafie non è così netta».
Ai funerali dei boss criminali nel meridione spesso si registrano partecipazioni “oceaniche” e altre “imbarazzanti”. «Nel libro c’è l’anamnesi del fenomeno, con il confronto tra la morte di un terrorista e quella di un capoclan del Sud. Alle esequie di un esponente dell’eversione o non ci va nessuno o chi prende parte alla cerimonia desta scandalo e finisce fotografato sui giornali. La mafia non è più accettabile del terrorismo, ma quando muore un capoclan a volte si sentono in dovere di partecipare alla funzione funebre – che si tiene magari nella chiesa principale della città – i sindaci, i parlamentari e i notabili del posto. La pietà per i defunti non è in discussione, ma queste contiguità possono segnare la mancanza di un diaframma tra società civile, istituzioni e mafie. Accade però solo nel Sud. Al Nord le mafie non si mostrano per non provocare una forte reazione sociale». Le mafie si presentano con un volto rassicurante: nella vicenda dell’attentato a Brindisi, la Scu ha subito preso le distanze dalla strage. «C’è una sua logica nel non volere destare allarme nelle popolazioni con fatti atroci, mentre resta inaccettabile che media nazionali offrano sponde a dichiarazioni di boss, senza un vaglio critico accettabile. Mi riferisco alle interviste al cassiere della Scu Tonino Screti o alla moglie di Pino Rogoli». Che fare per arginare la gelatinosa contiguità con riti e pratiche criminali? «Bisogna confutare alcune analisi in voga soprattutto a sinistra, per le quali la mafia è un corpo estraneo alla società o proiezione di una sorta di “familismo amorale”. Giovanni Falcone considerava le mafie co me qualcosa che si insinua nella nostra mentalità e, anche se non siamo complici, finisce per far leva su nostre abitudini che non c’entrano nulla con la famiglia ma con costumi che non siamo disponibili a contrastare ».
C’è un’area grigia nella quale è possibile smarrirsi? «In Puglia ci sono tentativi di “welfare sociale” di stampo criminale, come a Mesagne, e forme di assoluta indifferenza che fanno riflettere; come non interrogarsi sull’opportunità per Fabrizio Miccoli di vestire o meno la maglia del Lecce?» Il “Corriere” ha sollevato la questione. «Un calciatore è un simbolo. Miccoli ha un effetto trascinante nei confronti della gioventù: le sue parole su Falcone e il livello di contiguità a soggetti di alto calibro mafioso non lo rendono un modello positivo.
Bisognerebbe prendere le distanze e alimentare esempi differenti». Quali? «La nazionale di Prandelli: gli azzurri si sono allenati in Calabria su un campo confiscato alla ‘ndrangheta e hanno sfidato una squadra di un club requisito dallo Stato alla camorra». C’è una terapia contro il consenso delle mafie? «Oltre l’indispensabile contrasto e repressione delle forze dell’ordine e oltre il lavoro della magistratura, contano i messaggi diretti al popolo: la villa del boss diventata sede di una cooperativa giovanile a Torchiarolo o l’esperimento, non riuscito, di Vissani con il ristorante nell’agro di Altamura in una masseria espropriata ai clan». Bisogna evitare il rischio di cadere nella retorica? «Ne aveva parlato Leonardo Sciascia. Va evitato il professionismo dell’antiracket. Ma ci sono criteri infallibili per verificare l’efficacia di questi sodalizi: il numero di costituzioni di parti civili nei processi o di denunce di imprenditori». La speranza passa dai simboli? «L’invito è a visitare la palestra a Scampia della famiglia Maddaloni: si può essere vincenti anche vivendo in un luogo definito l’anticamera dell’Inferno. Un giovane di sedici anni ha un bivio: lo spaccio o il riscatto attraverso la gioia dello sport. Come Pino Maddaloni, argento nel judo a Sydney 2000».
di Michele De Feudis
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