Da Avvenire del 9 aprile
In occasione della morte di David Hume, avvenuta nel 1776 all’età di 65 anni, l’amico Adam Smith disse di lui che si era «accostato all’idea di un uomo perfettamente saggio e virtuoso quanto forse è consentito dalla fragilità della natura umana». Del filosofo scozzese è nota infatti l’opera teoretica, in cui primeggia il Trattato sulla natura umana, pubblicato nel 1742, che ottenne l’entusiastico apprezzamento di Kant, a suo dire destato dal “sonno dogmatico” proprio dalle pagine humeane. Non meno letta è la Storia d’Inghilterra, uscita poco prima del suo trasferimento a Parigi, nel 1763, in qualità di segretario dell’ambasciatore inglese.
Gli Essays, moral and political, pubblicati in patria nel 1741-42, meritano anch’essi un posto di riguardo. Da questa collezione sono tratti gli Scritti politici che escono ora in Italia in una nuova edizione grazie al paziente lavoro di Spartaco Pupo (Libertà e moderazione. Scritti politici, Rubbettino, pagine 314, euro 19,00). Non è la prima volta naturalmente che le sue riflessioni politiche vengono proposte nella nostra lingua: la prima edizione curata da Matteo Dandolo uscì nel 1959 con Boringhieri, poi fu la volta del volume tradotto da Giuseppe Giarrizzo nel 1962 per i tipi del Mulino, infine è apparsa l’antologia a cui ha lavorato Lia Formigari (Editori Riuniti, 1975). Rispetto alle precedenti, l’edizione di Rubbettino si segnala per la completezza del materiale proposto – vi sono inclusi 29 brevi capitoli che spaziano su molteplici argomenti politici e civili – e per l’originalità dell’interpretazione del curatore. In sostanza, Hume non è letto in modo convenzionale come il campione del laicismo empirista di conio anglosassone, ma viene ritratto come il capostipite del conservatorismo liberale, mettendo in luce aspetti finora poco studiati della sua opera.
La riflessione civile di Hume si pone in contrasto con quella dei teorici del cosiddetto “contratto sociale” – Hobbes, Locke, Rousseau – i quali sostengono che all’origine del potere politico vi sia la scelta razionale dell’uomo d’uscire dallo “stato di natura”, per porsi sotto il più comodo ombrello protettivo dell’autorità. Hume ritiene, invece, che il potere abbia una matrice convenzionale: la sua reiterazione nel tempo lo legittima e soprattutto lo rende effettivo, senza la necessità d’indagare più di tanto le ragioni per cui l’obbedienza sarebbe dovuta. Più che il consenso volontario, a legittimare l’autorità è l’abitudine, che Hume definisce la «grande guida delle vita umana». Anziché giustificare il comando politico attraverso complesse elucubrazioni razionali è sufficiente riconoscere che il potere si sostiene prevalentemente sull’opinione che ne hanno gli uomini che vi sono sottoposti. Considerazioni e linguaggio di straordinaria attualità: «È […] solo sull’opinione che si fonda il governo – scrive Hume – e questa massima vale tanto per i regimi più dispotici e militari quanto per quelli più liberi e popolari. Il sultano d’Egitto o l’imperatore di Roma possono tenere alla briglia i loro sudditi inermi come bestie brute, contro i loro stessi sentimenti e le loro stesse inclinazioni, ma per far ciò essi devono perlomeno dominare suoi loro mammalucchi e pretoriani come fanno sugli uomini per mezzo dell’opinione». Non si può escludere che il governo si sia originato in maniera “casuale e imperfetta”, per cui sono il tempo e l’abitudine a dare «autorità a tutte le forme di governo e a tutte le dinastie di prìncipi; e quel potere che dapprima era fondato solo sull’ingiustizia e la violenza, col tempo diventa legale e obbligatorio».
Come si evince da questi passaggi, vi è da parte di Hume una netta presa di distanza dal razionalismo illuminista, a favore di quello che gli studiosi hanno definito una forma di “illuminismo conservatore” (conservative enlightenment). A suo avviso, le istituzioni evolvono, senza restare mai tali e quali, e proprio per questo non ha senso che vengano rivoltate come un calzino sulla base di astratte speculazioni, secondo lo stile dei pensatori politici francesi del Settecento. La linea d’evoluzione si disegna autonomamente grazie all’operare concreto delle istituzioni, come avviene da sempre in Inghilterra, dove la costituzione non è scritta – ma appunto è “convenzionale” – proprio per agevolare questa dinamica. Le istituzioni serbano in sé la tradizione: di conseguenza, gli sforzi dei protagonisti della scena politica devono essere rivolti alla conservazione della “stabilità istituzionale”, perché – scrive Hume – lo «spirito d’innovazione è di per sé pernicioso» conducendo troppo facilmente al fanatismo. La vita politica deve ispirarsi alla pacatezza, e il governo deve agire tutelando in modo particolare la proprietà, istituzione su cui si fonda non solo la vita sociale, ma lo stesso senso di giustizia degli uomini.
Un’altra ragione per cui Hume merita di essere ricordato è il suo concetto di “balance of power” su cui fa sponda la scuola realista delle relazioni internazionali. Qual è il modo più efficace per conservare la pace, o almeno rifuggire le guerre? Lavorare sulla scena internazionale favorendo l’equilibrio delle forze in campo, che – come avviene in fisica – produce la statica. In particolare, il Paese più forte deve evitare che gli altri attori facciano fronte comune contro di lui, insegnamento quest’ultimo che Hume traeva dalla pratica dell’arte diplomatica per conto della Gran Bretagna. Il referente dell’interpretazione humeana proposta da Spartaco Pupo è Michael Oakeshott (1901-1990), che vedeva nel filosofo scozzese il vero padre del conservatorismo moderno, in luogo del più celerato Edmund Burke (1729-1797). Vi sono studiosi inclini a mettere in discussione l’appartenenza di entrambi questi autori – sia Burke che Hume – al campo conservatore, utilizzando argomenti altrettanto fondati. Ma non è questo il punto: inutile chiedersi se sia più bella una fotografia asettica o un ritratto disegnato dalla mano umana. Questa antologia appartiene alla seconda categoria, e proprio in questo sta il suo principale motivo d’interesse.
di Davide G. Bianchi
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