Grande Circo Campidoglio (L'Espresso)

di Marco Damilano, del 23 Maggio 2016

Peter Mair

Governare il vuoto (seconda edizione)

La fine della democrazia dei partiti

Da L’Espresso del 19 maggio

Prendete il testo appena pubblicato in Italia di Peter Mair, geniale politologo irlandese prematuramente scomparso. Leggete il titolo: “Governare il vuoto”. I capitoli: La fine del coinvolgimento popolare, Il disimpegno delle élite. «Il vuoto democratico è un processo largamente diffuso», teorizzava Mair. Poi chiudete il libro e fate un giro dentro il Grande Raccordo Anulare. Dove i fenomeni studiati in laboratorio diventano carne e sangue. Il collasso dei partiti. L’impossibilità di governare. Il sistema in decomposizione. E il circo mediatico delle candidature che occupa e occulta il Grande Vuoto.
L’élite al gran completo, una settimana fa, ha sfilato nella sala della Regina della Camera dei deputati, per l’assegnazione dell’annuale premio Guido Carli. Giovanni Bazoli, Fedele Confalonieri, Mauro Moretti, Urbano Cairo. E i romani: Azzurra Caltagirone, abbronzata e con stivaletto dark, Antonio Catricalà, Barbara Palombelli, Marisela Federici. Il presidente del Coni Giovanni Malagò, dominus del circolo Canottieri Aniene per vent’anni, scambia il cinque con Francesco Rutelli e bacia Umberto Groppi, ex assessore di Gianni Alemanno e testa pensante della destra, oggi schierato con Roberto Giachetti. Trasversalità. «Che platea, ragazzi! », esclama il presidente del premio Gianni Letta, come ai vecchi tempi. C’è il candidato-sindaco di riferimento di questo mondo, seduto in prima fila: Alfio Marchini. Ma alle sue spalle circola la battuta più gettonata del momento: «A Milano, come finisce, finisce bene. A Roma, come finisce, finisce male». E quando Letta fa una tirata sulla classe dirigente che non c’è più, tutti annuiscono. Anche il candidato Marchini.
Si svolge così la campagna elettorale romana: tra premi, cene, salotti, vernissage. La madrilena Maite Carpio Bulgari, moglie di Paolo, presidente del gruppo della gioielleria di via dei Condotti, invita le amiche a colazione al Porto Fluviale per presentare la candidata del Pd Michela De Biase, nome alla moda, si porta nei salotti-bene, moglie del ministro Dario Franceschini. Promesse di voti e di veleni. Il 6 maggio nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini si celebra la messa di suffragio per l’anima pia di Giulio Andreotti nel terzo anniversario della scomparsa. Al termine della funzione, un’ombra sussurra una previsione sulfurea: «Marchini finirà sotto attacco». Un antico, devoto collaboratore del Divo Giulio: Luigi Bisignani.
Sembra scorrere tutto come al solito, nella Città eterna abituata da sempre a convivere con le sue rovine, a tirare a campare nella cinica attesa della propria catastrofe. E invece sono elezioni diverse da tutte le altre. Dopo Mafia Capitale, le dimissioni di Ignazio Marino, il crack dei partiti. Questa volta la fine è già arrivata, senza rimedio possibile. Ogni tanto qualcuno abbandona la gara. A destra il povero Guido Bertolaso, passato nel giro di tre settimane da salvatore della patria a ispettore Clouseau de noantri, pasticcione e gaffeur. A sinistra, Stefano Fassina, onesto combattente di convinzioni antiche, purtroppo per lui sono stati giudicati datati non solo i programmi ma anche i moduli per la raccolta delle firme e ora è sospeso in attesa del Tar. I candidati, Virginia Raggi (M5S), Roberto Giachetti (Pd), Marchini e Giorgia Meloni, passano come una compagnia di giro da uno studio televisivo all’altro, si inseguono sulla Rete, gareggiano nelle proposte più strampalate. I Grandi Elettori non li conoscono, nessuno aveva mai visto in vita sua la Raggi, nessuno chiama Giachetti per nome come si faceva con Veltroni ( «Walter mi ha detto che…» ), Alfio è Arfio, come il suo fake, più riconoscibile del vero.
Grandi elettori erano i palazzinari. Nelle precedenti campagne elettorali schieravano le truppe, movimentavano i quattrini, indicavano i nomi su cui puntare. Si atteggiavano a strateghi, battezzavano il candidato vincente. Oggi a fare il tifo restano i piccoli, i reduci dell’ex potentissima Acer, attratti dalla Meloni grazie ai buoni uffici dell’ex assessore Fabrizio Ghera. I costruttori medio-grandi sono in fuga. «Vuole sapere dove sono? Li trova il martedì sul Frecciarossa Roma-Milano, vanno a ristrutturare i debiti delle loro imprese, in città non trovano più neppure uno sportello aperto dopo l’uscita di scena delle banche storiche», ti spiegano. L’Ottavo Re di Roma, l’ingegner Francesco Gaetano Caltagirone appoggia senza entusiasmo Marchini, che pure è stato suo consigliere di amministrazione in Cementir, suo socio quando insieme diedero l’assalto (fallito) alla spagnola Metrovacesa e che è considerato quasi uno di famiglia. Ostenta distacco. Fa sapere che i suoi interessi sono altrove: nessun aumento di capitale dentro Roma, l’ultima conquista per la Vianini sono gli appalti per la tangenziale, sì, ma 2600 chilometri più a Nord, a Stoccolma. Anche il gruppo Salini è in uscita, verso lidi più redditizi. Resta la rivalità storica di Caltagirone con il gruppo Parnasi, ma la politica non c’entra. E l’indignazione del “Messaggero” e degli esponenti romani del Pd sull’uscita della Raggi che promette di cambiare i manager pubblici dell’Acea è stata considerata da Caltagirone inutile, se non dannosa. Nulla di paragonabile, in ogni caso, all’attivismo sfrenato che precedeva le campagne elettorali negli anni di Rutelli e di Veltroni, con la regia di Goffredo Bettini, quando il centro-sinistra romano si presentava come un esempio nazionale, il modello Roma. E neppure con l’aria da spallata che preparò il cambio con Gianni Alemanno nel 2009. «Serve discontinuità», sillabò Caltagirone, e fu il diluvio. Ora, invece, i candidati affermano che i lavori della metro linea C andranno ripensati e non accade nulla. E le Olimpiadi 2024 sono un pallino del presidente del Coni Malagò piuttosto che una grande questione nazionale.
L’altro Grande Elettore, il Vicariato, punta su Marchini, il cardinale vicario Agostino Vallini lo vede come «candidato di pacificazione», con qualche buon aggancio con papa Francesco per i suoi trascorsi in Argentina e per la devozione alla vergine di Lujan, anche la sua holding si chiama così. Ma il Vaticano, con il segretario di Stato Piero Parolin, è sembrato benedire la Raggi. E Bergoglio preferirà tacere: ha già parlato, al momento di dare il benservito a Marino. Le ambasciate straniere che hanno attivato il loro percorso di consultazione, con qualche buona impressione rilasciata dalla Raggi.
L’ultimo grande elettore abita a Palazzo Chigi. Il candidato di Matteo Renzi è Giachetti, ma il premier non ama Roma, ha dimostrato la sua estraneità in ventisette mesi che vive in città, nella sede del governo. Nei ministeri il segnale è arrivato. Nessun impegno, solo qualche precauzione: lo spazio espositivo delle Scuderie papali del Quirinale, per esempio, sarà strappato al Comune di Roma e affidato allo Stato, non si sa mai la vittoria di 5 Stelle. Il prefetto di Roma è carica vacante, con Franco Gabrielli nominato capo della polizia. Il commissario Francesco Paolo Tronca non ha mai attecchito. La borghesia, quel che resta, teme Raggi e Meloni e spera in Marchini e Giachetti. Nelle immense periferie, però, i rapporti di forza sono ribaltati. E i partiti? Quelli non ci sono più. Per loro l’apocalisse è già arrivata da tempo. E tutti hanno paura che, dopo il voto, ci sarà da governare il vuoto, come profetizzava Peter Mair.

di Marco Damilano

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