Da Il Giorno del 7 aprile
Vi ricordate la ventata anti-euro di qualche mese fa? Per colpa di una crisi economica che ha continuato sempre più ad ingabbiare i partner della moneta comune, in molti sembravano avere finalmente preso atto che urgevano drastici interventi per puntellare una costruzione a rischio crollo. Ma oggi, sull’onda di una ripresina che è ancora tale e di un euro più competitivo nei confronti del dollaro e del franco svizzero, nessuno parla più (o quasi) dell’esigenza di voltare pagina. Tutto sembra rientrato, nel nome di regole non scritte che impediscono di parlare male di qualsiasi cosa coinvolga, in qualche modo, l’Europa. Eppure il problema dell’euro, al di là degli andamenti congiunturali dell’economia, resta più che mai sul tappeto. Basta rileggere le lezioni che Friedrich von Hayek tenne a Ginevra nel 1937 e che oggi vengono pubblicate da Rubettino. In effetti, l’economista liberale è morto otto anni prima del varo dell’euro, ma, se fosse stato ancora vivo, si sarebbe dichiarato certamente contro la creazione della moneta unica per la semplice ragione che aveva sempre criticato gli interventismi sovranazionali sul fronte valutario: lui preferiva il mercato allo statalismo.
Un monito, quello di Hayek, che ha largamente anticipato le battaglie attuali contro la tecnocrazia spinta degli euro-burocrati. Del resto, l’economista tedesco non era stato il solo a metterci in guardia contro gli eccessi e le ingessature di una divisa unica che si è rivelata troppo stretta per i Paesi aderenti. Anche un premio Nobel come Milton Friedman, sia pur partendo da posizioni differenti, aveva segnalato subito cosa sarebbe successo con l’euro in tempi di magra: in una lettera, lo studioso americano scrisse che i padri della costruzione monetaria europea avevano innalzato un bel castello, ma, completati i lavori del maniero, avevano gettato da una finestra dell’ultimo piano la chiave che apriva il portone principale. Anche Friedman era stato, insomma, capace di individuare i difetti d’origine della moneta unica per il semplice motivo che i grandi strateghi non avevano previsto alcuna via di fuga in caso di una crisi economica prolungata dell’Europa. Cosa che è, appunto, capitata con l’ultima recessione che ha messo letteralmente in ginocchio il Vecchio Continente.
Se non ci fosse stata la camicia di forza dell’euro, le conseguenze della stagnazione sarebbero state certamente minori. Non è una pura coincidenza il fatto che i Paesi fuori dal club valutario di Bruxelles hanno imboccato la strada della ripresa con largo anticipo rispetto a noi. Ecco perché non dobbiamo illuderci troppo sui primi segnali di un’inversione di tendenza della congiuntura, una svolta che deve ancora consolidarsi: basterebbe un minimo passo falso, l’ennesimo, per farci ripiombare nel clima di qualche mese fa. Ora che il Titanic non sembra, dunque, affondare, come era, invece, successo fino all’altro ieri, sarebbe davvero il momento giusto perché Bruxelles cominci a rivedere sul serio quei meccanismi che ingabbiano l’euro. Diciamolo chiaramente: qui non si tratta di essere favorevoli o contrari alle tesi anti-euro dell’imprenditore Ernesto Preatoni, qui si tratta di essere realistici. E, allora, diciamolo chiaramente: i membri deboli dell’euro, a cominciare dal Belpaese, non sarebbero più in grado di sopportare un’altra guerra dei sette anni come quella sostenuta dal 2008 al 2015. Ancora una volta, evitiamo, quindi, di mettere la testa dentro la sabbia come fanno gli struzzi che oggi, guarda caso, vengono allevati persino in Italia.
dall’editoriale di Giancarlo Mazzuca
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