Gli Stati Uniti furono l’ultima illusione, quindi il distacco dal fascismo (lavocedinewyork.com)

di Luigi Troiani, del 22 Settembre 2022

Nel rapporto tra cultura politica italiana e statunitense, il periodo fascista fu più rilevante di quanto in genere si ritenga, almeno negli anni che precedono la Seconda guerra. Una pagina di interesse fu scritta da Margherita Sarfatti. La narra con dettagli e commenti Gianni Scipione Rossi, in un saggio (L’America di Margherita Sarfatti), dal significativo sottotitolo (L’ultima illusione), edito da Rubbettino.

L’autore affronta senza partigianerie l’intreccio di passioni personali e politiche “americane” delle quali Sarfatti fu occasionale protagonista, e come esse si andassero a collocare rispetto alla rappresentazione più conformista che dell’America fornivano contemporanei come Luigi Barzini jr ed Emilio Cecchi. La sua Sarfatti risulta poliedrica e di difficile sintesi: è conquistata dalla grandiosa capacità americana di innovazione, e tuttavia non sa staccarsi dal “piccolo” mondo italiano.

Nata Grassini a Venezia nel 1880, Margherita fu stimata critica d’arte, anche all’estero. A diciott’anni sposò l’avvocato socialista Cesare Sarfatti, dal quale ebbe tre figli e un nome mai abiurato. Fu per anni attivista socialista e femminista, contribuendo ad Avanti! La difesa delle lavoratrici. Nell’ambiente conobbe il giovane e magnetico Benito Mussolini col quale intessé una relazione che fruttò all’ambizioso romagnolo visibilità nella buona società. Fu, suo malgrado, utilizzata da chi, quando non ne era stata ancora irretita, aveva a ragione definito “teppista”.

Il rapporto si sarebbe poi sfilacciato, ma intanto Margherita si era arruolata nelle sfere alte del fascismo, aveva pubblicato a Londra nel 1925 una biografia dell’amante (Dux) che, tradotta in diciotto lingue, era stata letta ovunque, si era installata nel ruolo di consigliera del regime.

È in questa cornice che va collocato il libro di Rossi, centrato sul viaggio che Sarfatti, da tempo fuori dall’intimità con Mussolini, fece negli Stati Uniti nella primavera del 1934. Ancora convintamente fascista, vuole “vendere” a Roosevelt un fascismo “sociale”, non necessariamente aggressivo, non più razzista di quanto fosse l’America di Griffith (il suo primo sonoro, Abraham Lincoln, è del 1930)  e del KKK. Donna emancipata e di intelletto, vuole anche tuffarsi in una realtà politica, economica e culturale “più grande del vero”, per tirarne fuori un’idea propria, possibilmente originale, da spacciare sui due livelli che le premono: il governo italiano che sa prossimo all’abbraccio mortifero con Hitler, il circolo di intellettuali italiani che degli USA sanno ciò che racconta la propaganda.

Sul piano personale coglierà gli obiettivi: a Washington prende un tè domenicale alla  Casa Bianca, a New York incontra il sindaco La Guardia e consorte, ed è onorata da first lady italiana nello studio-party organizzato dalla giornalista e autorevole socialite Marie Mattingly Meloney, confidente di Eleanor Roosevelt. Sul piano intellettuale dai viaggi nel paese deriva un concetto d’America, improvvisato e per certi versi macchiettistico, capace di esprimere valide intuizioni.

Deludente invece il bilancio politico. Mussolini non le dà ascolto, il ministro degli Esteri Ciano le è contro. Il cerchio di chi conta le è ormai ostile, anche perché, nonostante la conversione del 1928 al cattolicesimo, è nata ebrea.

Proverà a travasare l’appello al dialogo con gli Stati Uniti in L’America, ricerca della felicità  che riesce a far uscire solo nel 1937; tardi per la piega che hanno preso gli eventi. Eppure il suo non è un ragionamento senza senso politico: il New Deal rooseveltiano e certi programmi socio-economici del fascismo hanno punti di contatto che possono far ipotizzare una collaborazione sociale ed economica se non ideologica, che in prospettiva potrebbe sospingere l’Italia fuori dallo scenario della disastrosa avventura anti-americana.

Mussolini non recepisce: è convinto che Roosevelt non entrerà in guerra, e comunque per lui l’America “non conta niente”. Tanto ne è convinto che non apprezza il libro di Sarfatti e lo fa ritirare dalle librerie. Subito dopo Margherita lascia l’Italia, sfuggendo così alle retate razziste, cosa che non riuscirà a sua sorella deportata e uccisa ad Auschwitz. Punta sugli Stati Uniti, ma lì non la vogliono Nel dopoguerra, rientrerà in Italia. Scriverà ancora di America, prima della morte, avvenuta nel 1961, a Cavallasca, nella villa del Soldo, la casa di campagna nel comasco dove Mussolini aveva atteso le decisioni del re sullo stato d’assedio, nel 1922.