SERRA SAN BRUNO È una storia che comincia cinquecento anni fa e che è custodita negli archivi di un monastero millenario. L’anonimo cronista che la racconta non ci consegna il giorno e il mese, ma solo l’anno in cui una coppia di genitori di Simbario, paesino alle porte di Serra San Bruno, va a bussare al portone della Certosa implorando i monaci di liberare la loro figlia da uno “spirito immondo” che non le dà pace. È il 1522 e non è trascorso neanche un decennio da quando i certosini sono tornati ad abitare il monastero di Serra: con il ritrovamento di quelle che secondo la tradizione locale sarebbero le reliquie di San Bruno di Colonia e del Beato Lanuino si è chiusa una “parentesi” (durata trecento anni) in cui i monaci bruniani non hanno abitato tra quelle mura. Nelle presunte ossa del Santo il padre della giovane “posseduta” ripone grandi speranze, ma a contatto con le reliquie sua figlia non viene “liberata”. Allora il vicario del monastero suggerisce di portare la ragazza dove, nei primi anni del XVI secolo, le ossa erano state ritrovate, cioè l’eremo di Santa Maria del Bosco, dove San Bruno aveva trovato la grotta che sarebbe stata suo rifugio naturale e spirituale negli ultimi anni di vita. E lì, dopo aver fatto tre volte il giro attorno alla cappella e dopo aver ingoiato un po’ di polvere della grotta, lo “spirito” lascia finalmente il corpo della ragazza fuoriuscendo da un dito la cui punta lascia sanguinante.
La cronaca di questo esorcismo è contenuta nel primo documento che racconta il fenomeno degli “spirdàti” e dei poteri taumaturgici attribuiti al Santo tedesco che scelse le Serre per il suo ritiro dal mondo. I “prodigi” di liberazione degli “ossessi” di cui venne ritenuto capace San Bruno sarebbero tutti avvenuti dopo la sua morte, e i successivi cinque secoli sarebbero stati popolati da una costellazione di figure inquiete il cui destino si è intrecciato con quello di luoghi dove, ancora oggi, rimangono tracce, suggestioni e storie che rimandano a una pagina poco nota e altrettanto poco rassicurante dell’Europa moderna e contemporanea. Il primo a raccontarla in maniera organica e documentata, in un saggio che si muove tra storia e antropologia, è lo storico Tonino Ceravolo, che già nel 1999 aveva dato alle stampe per Monteleone “Gli Spirdàti”, la cui seconda edizione è stata curata di recente da Rubbettino per la collana “Che ci faccio qui” (qui la prefazione di Giovanni Pizza). Ceravolo ha trascorso anni nella biblioteca della Certosa e ha raccolto le testimonianze di diversi anziani del luogo, ma soprattutto ha studiato i segni che nella comunità locale ha lasciato la credenza popolare sui poteri taumaturgici del Santo. Segni tanto marcati da attirare nelle Serre agiografi, folkloristi ed etnologi giunti a vedere quel rito collettivo che si compiva il lunedì di Pentecoste e che Ernesto De Martino raccontò in un articolo – “Purificazione di giugno” – pubblicato su L’Espresso Mese nel 1960. Cronache più recenti, ma ugualmente significative, sono quelle redatte da Enzo Vellone, compianto giornalista serrese, in due articoli pubblicati il 25 marzo 1992 sul Giornale di Calabria e il 13 giugno 1995 sulla Gazzetta del Sud.
Per secoli furono i certosini stessi ad officiare gli esorcismi e, soprattutto tramite l’immersione nel laghetto delle penitenze di San Bruno, le “liberazioni” si compivano attraverso una “liturgia” che attirava a Serra gente da tutta la Calabria. Agli inizi del ‘900 poi i monaci furono sostituiti dagli esorcisti popolari, persone del luogo che si riteneva avessero la capacità di interloquire con l’aldilà e che, tra vestiti che “volavano” via di dosso al “posseduto” e incitamenti della folla, ingaggiavano una sorta di “dibattito” molto animato con spiriti e demoni per convincerli a liberare il “posseduto” e a fuoriuscire da una parte del corpo che fosse consona a non provocargli ingiurie fisiche.
La frequenza con cui si officiavano questi riti andò scemando già negli anni 50, ma il legame tra i luoghi di San Bruno e gli esorcismi non si sarebbe in realtà mai spento. Il Corriere della Calabria è infatti in grado di raccontare come ancora oggi tra gli abeti delle Serre vengano celebrati esorcismi non autorizzati in via ufficiale dalle gerarchie ecclesiastiche, nonostante ad officiarli non siano gli esorcisti popolari di cui ancora si conserva memoria ma veri e propri sacerdoti cattolici. Va detto che i certosini con questa “usanza” c’entrano poco o nulla: se è vero infatti che c’è ancora molta gente che si rivolge a loro per chiedere che una persona cara sia esorcizzata, è altrettanto indubbio – anche questo il Corriere può testimoniarlo per esperienza diretta – che i monaci bruniani rifiutino categoricamente spiegando che non si occupano di tali liturgie. Succede invece da anni, e ne abbiamo raccolto diverse testimonianze di prima mano, che, in orari in cui il luogo è poco frequentato, nei pressi della chiesetta di Santa Maria del Bosco presunti indemoniati vengano sottoposti a tentativi di esorcismo praticati da preti che arrivano da fuori Serra e che vengono condotti lì dai familiari del malato. Diverse persone, il cui racconto si incrocia e coincide perfettamente, hanno assistito anche di recente ad episodi del genere, situazioni che non hanno nulla di morbosamente suggestivo ma che raccontano più che altro di tentativi di liberare con ogni mezzo alcune persone dalla sofferenza. E che fanno comprendere come, intriso nella spiritualità quasi naturale di certi luoghi, il legame irrazionale di un popolo con il proprio presunto taumaturgo possa resistere intatto allo scorrere dei secoli.
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