Cadono i 44 anni dal rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. E dopo tutto questo tempo, i lati oscuri prevalgono su quelli che siamo riusciti a illuminare. Succede, d’altronde, anche per altre pagine nere della nostra storia, prima e dopo la stagione delle stragi: in Italia la verità è un segreto di Stato. Ma le 86 lettere che Moro scrisse nei 54 giorni della sua prigionia rimangono, forse, il più misterioso dei misteri che girano attorno alla vicenda. Era davvero lui, quell’uomo? Scriveva sotto dettatura dei suoi sequestratori? Aveva smarrito la propria integrità mentale, precipitando – si disse fin dai primi giorni – nella sindrome di Stoccolma? Ma se invece Moro era in sensi, sapeva dove si trovasse? E ha cercato di trasmettere all’esterno l’indicazione di quel luogo?
Questa pioggia di domande è rimasta, fin qui, senza risposta. Specialmente l’ultima, che proverebbe l’estrema lucidità di Moro. Sciascia intuì un messaggio cifrato in quelle lettere, senza però riuscire a dimostralo: giacché il suo stile – disse – “per l’attenzione che sapeva dedicare alle parole, per l’uso anche tortuoso che sapeva farne”, era il più adatto a “nascondere (pirandellianamente) tra le parole le cose”. Del resto Moro, soffrendo d’insonnia, di notte frequentava l’enigmistica, i rebus, gli anagrammi. Eppure nessuno seppe – o volle – decrittare le sue lettere.
A risolvere il puzzle provvede adesso un libro di Carlo Gaudio, L’urlo di Moro (Rubbettino). Sennonché lui non è un campione di quiz televisivi, è un medico, e d’ottima carriera. Dirige il dipartimento di Scienze cardiovascolari alla Sapienza, ha firmato oltre 400 pubblicazioni. Ma è pure autore di un pamphlet filosofico (La zattera, 2018), d’un paio di volumi sul cinema, di biografie. Dunque Gaudio è un eclettico, categoria un tempo celebrata, oggi guardata in gran sospetto. Se vai da un ortopedico per un dolore alle ginocchia, potresti ottenerne in cambio uno sguardo esterrefatto: “Il ginocchio? Ma io sono uno specialista della caviglia!”. Lo specialismo, ecco la malattia del nostro tempo. Come diceva Flaiano, oggi anche il cretino è specializzato. E allora come si permettono i medici di giocare con la storia?
Il gioco di Carlo Gaudio, però, ci dona una rivelazione: Moro conosceva l’indirizzo della sua prigione – l’appartamento di via Montalcini al numero 8, interno 1 – e cercò di divulgarlo. Ne è prova l’inciso più celebre di tutto il suo epistolario, contenuto in una lettera a Cossiga recapitata il 29 marzo 1978: “Che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato”. Suona così, difatti, l’anagramma della frase: “E io so che mi trovo dentro il p.o uno di Montalcini n.o otto”.
D’altronde non è l’unica prova; con un’analisi lessicale parola per parola, Gaudio ne mostra varie altre. Per esempio nella lettera alla moglie Eleonora (5 aprile), dove Moro scrive: “Io poso gli occhi dove tu sai e vorrei che non dovesse mai finire”, e dove si nasconde, di nuovo, un anagramma: “O forse che io dovevo essere chiuso prigione di via Montalcini”. Mentre più volte raccomanda di leggere “con la dovuta attenzione” i suoi messaggi, di “vederli bene”. Le frasi in codice di Moro sono sempre in prima persona, vengono introdotte da un “Io” che a sua volta assume valore segnaletico. Succede soprattutto nelle prime nove lettere, le più importanti, anche perché vi s’esprime subito una linea strategica (la trattativa per lo scambio di prigionieri); poi rinuncia, capisce che i suoi indizi non vengono raccolti. Ma non rinuncia mai a rivendicare la propria lucidità, lamentandosi perché “sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio” (lettera alla Democrazia cristiana, 27 aprile).
È l'”Io” di Moro, dunque, che torna a visitarci attraverso la ricerca imbastita da Carlo Gaudio. Ed è esattamente questo l’intento programmatico dell’autore: “la restituzione di Moro a Moro”, contro l’espropriazione della sua personalità operata dai politici del tempo, contro la rimozione del suo lascito praticata dai politici di oggi.