Da Il Quotidiano del Sud – Basilicata del 31 maggio
Protagonista di “Se sei vivo spara”, Thomas Milian dichiarò in un’intervista: «Con lui era come lavorare con Antonioni, perché in fondo era un intellettuale rivoluzionario». Per lo scrittore e giornalista Oreste Del Buono era “il Polanski orobico, il Bunel della Val Brembana”. Di certo Giulio Questi è stato uno degli irregolari del cinema italiano, un maledetto in attrito con tutte le conformità e il glamour dell’universo della celluloide. Sceneggiatore, attore e, innanzitutto, regista, ma le etichette professionali, in fondo, lo disturbavano, specie quella del “metteur en scène”: «Ho evitato di qualificarmi come regista, mi avrebbe conferito uno status sociale dal quale mi sono sempre tenuto alla larga per salvaguardare la mia libertà». Bergamasco di nascita, Giulio Questi è morto lo scorso 3 dicembre a novant’anni conservando una proverbiale ironia e schiettezza, nonché una lucidità pensiero impressionante. Solo qualche mese prima della scomparsa Rubbettino aveva dato alle stampe “Se non ricordo male”, un’autobiografia scaturita da una lunghissima discussione del regista con Domenico Monetti e Luca Pallanch. Definire l’opera di piacevole lettura potrebbe essere riduttivo,visto la notevole varietà di storie, avventure, situazioni narrate da uno dei protagonista (seppur molto appartato) del cinema italiano degli ultimi settant’anni. “Se non ricordo male” si potrebbe definire il romanzo-vita di Giulio Questi, di un libertario che poco meno che ventenne decise di prendere la strada della montagna ed arruolarsi in una brigata partigiana (esperienza già fatta conoscere in “Uomini e comandanti” pubblicato da Einaudi nel 2014). Finita la guerra a Questi si prospettò la scelta di emigrare in Svezia o in Venezuela, ma alla fine rimase nella sua amata Bergamo e iniziò a scrivere sulle pagine culturali de “La cittadella”, una rivista a cui collaboravano intellettuali affermati ed emergenti e che – anche per volontà dello stesso Questi – scartò di Pasolini le poesie in dialetto friulano. Alcuni racconti di Questi uscirono su Politecnico di Elio Vittorini il quale si arrabbiò tanto con lui quando gli comunicò che sarebbe andato a Roma per inseguire le muse della settima arte. «Il cinema – lo liquidò Vittorini – è una cosa effimera, che passa e scompare, lo scrivere resta, è importante». Una volta a Roma, Questi conobbe Visconti, ma le prime serie offerte di lavoro gli furono fatte da Valerio Zurlini che lo volle come aiuto regia per alcuni documentari e il lungometraggio “Le ragazze di San Frediano” (1954) tratto da un romanzo di Vasco Pratolini. Con lo scrittore fiorentino incorrerà in un incidente stradale mentre andavano in lambretta per le strade di Roma. Questi ricorda che divenne conosciuto tra i cinematografi della capitale proprio grazie a all’incidente che procurò qualche frattura a Pratolini: «Quando alla sera arrivavo al bar Rosati, in piazza del Popolo, dove stazionava l’intellighenzia del momento, tutti dicevano: guarda quello stronzo che ha rotto le costole a Pratolini. Ero diventato famoso: ero uscito dall’anonimato! ..». Le pagine del libro sono rimorchianti anche per la lunga collana di aneddoti esposti con disincanto e senza peli sulla lingua. Ricorda Questi di quel provino in cui bocciò sia Silvia Koscina che Sophia Loren (che poi una volta, a New York, se la ritroverà nel suo letto), di quando fu scritturato per caso come attore nella “Dolce vita” di Fellini; delle vacanze al mare che faceva con Citto Maselli e la sua compagna Goliarda Sapienza; del rigetto che continuò avere per Pasolini e tutta la sua opera letteraria e cinematografica; dell’incontro con il suo sosia Pietro Germi che lo volle tra gli interpreti di “Signore i signori”; della militanza nel Partito Comunista che poi abbandonerà; della cocaina sniffata per puro godimento senza diventare mai un cocainomane («per me è sempre stato un momento di allegria, l’esecuzione di un inno alla gloria nei momenti più felici di comunanza»). Il Giulio Questi regista, dopo aver lavorato in una serie di film ad episodi, nel 1967 affiancato nella sceneggiatura e nel montaggio dall’inseparabile Franco Kim Arcani, firma la sua prima vera regia con “Se sei vivo spara”, ” il western più violento, e pop che si stato prodotto in Italia”, una pellicola che segna una rivoluzione nel “cinema nostrum” ma viene martoriata da sequestri e forbiciate della censura. Con il successivo “La morte ha fatto l’uovo” (1968), Questi “pigia il piede sul pedale del grottesco e del nero” mentre con “Arcana” (1972) porta a termine un “film rituale sul disordine urbano e i suoi misteri, difficile da decifrare e catalogare”, tra gli interpreti Lucia Bosè nei panni di una fattucchiera lucana emigrata al nord. Dopo “Arcana” tutte le porte del cinema si chiuderanno per Questi, ma si apriranno quelle della televisione dove realizza tantissimi spot e delle fiction (“Quando arriva il giudice”, “Non aprite all’uomo nero”, “Il segno del comando”). Per quanto il suo cinema venga definito bizzarro, barocco, impudente, Giulio Questi nella sua autobiografia confessa: «Io non mi vergogno a dirlo, ho sempre cercato la poesia, cioè qualcosa di inafferrabile, talmente inafferrabile da lasciarmi a terra come poeta mancato. Ma non ci ho mai rinunciato e l’ho sempre inseguita, sì, la poesia, distruttrice della logica sintattica della normalità e del conformismo». Insomma, Giulio Questi un poeta delle immagini, il marchio per il “Polanski italiano” non sarebbe assolutamente disdicevole o fuori posto… E’ azzeccatissimo.
di Mimmo Mastrangelo
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