Una vita tra il marmo e il granito, Pietrasanta e il mondo, il sacro e il profano. Ora per il maestro toscano c’è un’altra sfida: la Basilica di Namyang, in Sud Corea, progettata da Mario Botta Giuliano Vangi si accosta al suo tavolo da lavoro, una distesa di lime, ceselli e martelli sparpagliati. Scambia una battuta con il suo assistente, Aurelio Baldini, un omone sulla settantina, baffi folti e occhi azzurri. Tutt’intorno, nel grande studio con il soffitto alto dieci metri, spuntano qua e là le sculture: un uomo seduto su una poltrona di cristallo, un guerriero in bronzo su una moto, un volto e due mani che sbucano da un blocco di granito nero liscio, un Cristo ligneo.
Il maestro si ferma, allunga lo sguardo oltre le piccole finestre verso il monte Altissimo, la vetta delle Alpi Apuane che domina l’alta Versilia con il suo profilo scarnificato dalle cave di estrazione, il marmo prezioso che Michelangelo Buonarroti descriveva «di grana unita, omogenea, cristallina, ricorda lo zucchero». Presenza rassicurante, quella del genio del Rinascimento, che accompagna le lunghe giornate di Vangi, uno dei più grandi scultori italiani, nel suo atelier a Pietrasanta. Terra di marmo e bronzo, dai maestri del Cinquecento fino agli scultori contemporanei: Fernando Botero, Ivan Theimer e Igor Mitoraj (scomparso nel 2014), solo per citarne alcuni.
A 88 anni, Vangi si muove tra le sue opere come un atleta in tuta blu, agile e robusto, poi si tocca il collo come se qualcosa lo disturbasse: «Stavo molando il metallo con una fresa, le schegge si sono infilate sotto la camicia e nella pelle, per toglierle devo fare una doccia», dice mentre accarezza la sagoma di un volto femminile dai tratti orientali, l’embrione della scultura commissionata da una ricchissima signora sudcoreana. Qualche tempo fa la donna, proprietaria di un’importante casa automobilistica, lo ha contattato per realizzare una sua statua-ritratto. E così Vangi è arrivato fino a Jeju, l’isola vulcanica dove si trova il museo di arte antica, popolare e contemporanea fondato dalla signora. «È una lady di ferro, bella, una donna di potere. Le ho detto: accetto ma a un patto, che venga a Pietrasanta per posare. Ha risposto sì senza fare una piega», afferma l’artista, che in queste settimane forgi a le mani in bronzo chiaro, i capelli in bronzo nero, i denti che sembrano veri, gli occhi in granito e marmo, il cappotto color oro. Dovrà consegnare la scultura tra qualche mese, ma c’è un altro progetto – decisamente piu importante – che nel 2020 lo porterà in Corea del Sud, quando verrà inaugurata la Basilica di Namyang progettata da Mario Botta . Una chiesa gigantesca in un’area sacra dedicata alla Vergine del Rosario, non lontano da Seul, quasi tremila posti a sedere e due grandi absidi cilindriche in mattoni alte 40 metri. Ora i disegni preparatori di Vangi, realizzati nel suo atelier di Pesaro, campeggiano su una parete al piano superiore dello studio-hangar a Pietrasanta. Per la basilica lo scultore realizzerà un crocifisso e due pannelli di grandi dimensioni, serigrafati e sistemati tra due lastre di vetro, raffiguranti due scene: L’ultima cena e l’Annunciazione. Un rapporto professionale di lungo corso lega il grande architetto svizzero e lo scultore, che quasi vent’anni fa realizzò “Giobbe nel deserto” per una cappella in Versilia progettata da Botta, e più tardi l’abside della chiesa dedicata a Giovanni XXIII a Seriate, vicino a Bergamo. Le sue sculture sono collocate in chiese, cattedrali e musei a Padova, Pisa, Roma, Siena e altre città d’Italia. La grande scultura in marmo “Varcare la soglia” si trova all’ingresso dei Musei Vaticani, mentre per la chiesa di Padre Pio a San Giovanni Rotondo (Foggia), realizzata in collaborazione con l’architetto Renzo Piano , lo scultore ha firmato un ambone in pietra garganica sul tema di Maria di Magdala. Ma è con Botta l’intesa più longeva. «È generosissimo, aperto, instancabile. Capace di partire il venerdì per la Corea e rientrare il lunedì mattina a Mendrisio per lavorare», dice Vangi: «In comune abbiamo l’attenzione per i dettagli, la pignoleria infinita. Siamo innamorati dei materiali, non ci piace truccare le carte, ogni lavoro va fatto in maniera perfetta».
Il dialogo tra sacro e architettura contemporanea risulta sempre più complicato in una società secolarizzata. Come affermò Botta qualche tempo fa sul quotidiano Avvenire, quello di costruire luoghi di culto «può oggi apparire un intendimento azzardato, antistorico, aneddotico o comunque marginale rispetto alle spinte egemoniche di mercato e finanza che spadroneggiano nel controllo degli stili di vita». Sull’argomento Marco Sammicheli, docente alla Scuola del Design del Politecnico di Milano, ha scritto il saggio “Disegnare il sacro” (Rubbettino editore), in cui riflette sui progetti di architettura, design e arte per il sacro in Italia a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Periodo in cui, in Europa e nel nostro Paese, non sono mai state costruite tante chiese, sulla spinta del rinnovamento liturgico avviato dal Concilio Vaticano II e del flusso di migrazione urbana, il boom delle periferie.
In seguito, sottolinea Sammicheli nel suo libro, si è passati a una architettura incentrata sulla creatività dell’architetto, che spesso ha prevalso sul senso del costruire. Ragionamenti che non lasciano indifferente lo scultore toscano. «Molti edifici sacri dopo cinque o dieci anni si deteriorano, Botta invece utilizza il mattone, la pietra», prosegue: «Come nelle chiese romaniche, dove si entra in punta di piedi, nei suoi edifici contano pulizia e semplicità. Una visione in sintonia con la mia». La pulizia e la semplicità che lo scultore ritrova nelle sonate di Johann Sebastian Bach, il suo compositore preferito «per la purezza, l’invenzione, l’astrazione».
L’architettura dialoga con la scultura, sollecita domande, chiama in causa la fede. Quale rapporto ha Vangi con il sacro? «Quando realizzo un’opera ho mille dubbi, provo la stessa sensazione nei confronti del sacro», riflette lo scultore, che allarga il ragionamento a Michelangelo, Donatello, Giovanni Pisano , i suoi principali riferimenti. «Quando ti avvicini alle loro opere ti accorgi che possiedono un elemento che va al di là del contingente e le rende eterne. Quando le rivedi scopri sempre qualcosa di nuovo, è come un percorso di fede. Mi è successo di recente a Milano con “La Pietà Rondanini” di Michelangelo: l’avrò vista cento volte, è stato come se fosse la prima».
Difficile condensare quasi novant’anni in poche righe. Nato a Barberino di Mugello, Vangi manifesta subito la passione per la scultura sostenuto dal nonno materno Paolo Pieraccini, un carbonaio diventato ricchissimo mercante, che spesso lo porta nella chiesa di Santa Croce a Firenze. «Gli devo moltissimo, a cinque anni mi mise in mano uno scalpello: il mio primo lavoro fu un bassorilievo intorno al camino di casa». Lo scultore toscano si forma all’Accademia di Belle Arti di Firenze in tempi difficili, durante la guerra e l’occupazione nazista il Museo Archeologico resta chiuso. Allora supplica il suo maestro, Bruno Innocenti, e il direttore della scuola. «Riuscirono a farmi avere un permesso speciale, andavo tutte le settimane. Ricordo una scultura greca del 500 avanti Cristo, “L’apollo Milani” in marmo pario, di una bellezza straordinaria per la forza e lo sguardo perso nel vuoto pieno di mistero. Restavo lì davanti per ore».
Nel 1950 si stabilisce a Pesaro per dieci anni, dove insegna all’Istituto d’Arte, poi molla tutto e va in Brasile, a San Paolo. Sembra una decisione folle ma è la svolta: affianca per tre anni Carlos Blanc, fabbro e pittore, nel suo laboratorio che assomiglia all’antro di Vulcano impara a lavorare tutti i metalli, un know how prezioso negli anni a venire. Rientrato in Italia abita a lungo a Varese, poi a Pesaro, mentre le mostre si susseguono in tutto il
mondo e la famiglia si allarga: due figli dalla moglie Graziella, con cui è sposato da sessant’anni, e sette nipoti. In Giappone, a Mishima, una cittadina vicino al monte Fuji, dal 2002 esiste un intero museo dedicato al maestro toscano, finanziato da un banchiere giapponese, una collezione permanente dagli anni Sessanta ai nostri giorni. E ha un piede già nel futuro.«Non penso mai alla mia età, mi sento come se avessi vent’anni. Voglio essere robusto, stare bene insalute, la scultura è fatica», sottolinea.
Per capire lo scultore toscano, tuttavia, Pietrasanta e Pesaro non bastano, bisogna salire sulle montagne sopra Carrara. Di buon mattino arriviamo alla cava di Sponda, oggi di proprietà Campolonghi, dove secondo le testimonianze del Vasari attinse più volte anche Michelangelo: le pareti a piombo tagliate dai cavatori, i caterpillar in azione, i tir che affrontano i tornanti con il carico di blocchi di marmo bianco da 25 tonnellate. Lo scultore sceglie i suoi materiali con cura maniacale, il proprietario della cava lo coccola, lui tocca il marmo, guarda le venature. «Il materiale è l’anima della scultura. Ogni opera è concepita e pensata anche in relazione al suo materiale. Ho lavorato il marmo, il granito, le pietre, la creta, il ferro, il legno. Oggi lavoro anche l’acciaio, il rame, il nichel e altri metalli con le loro leghe. Quando comincio un lavoro spesso mi sveglio di notte assalito dai dubbi», dice.
A volte, tuttavia, il problema non risiede nei materiali. Quando le opere entrano in chiese importanti o in luoghi istituzionali c’è sempre il rischio di entrare in collisione con committenti e politici. Almeno un paio di volte Vangi è finito sulle cronache: nel 2001, l’altare in marmo bianco e il pulpito installati nel Duomo di Pisa scatenarono l’ira di Vittorio Sgarbi, all’epoca sottosegretario ai Beni culturali, che gridò allo scandalo, «uno scempio, una ferita al patrimonio» perché riteneva erroneamente che fossero stati rimossi due angeli candelabro e due antiche balaustre di Giambologna per far spazio alle nuove sculture. «Con Sgarbi siamo molto amici, ma in quel caso aveva torto. Lui pensava e pensa che in una chiesa romanica non andrebbe tolto né aggiunto nulla». Poi rammenta quella volta in cui la statua “Italia” in legno policromo installata nell’atrio di Palazzo Madama, a Roma, commissionata dal presidente del Senato Marcello Pera, fece andare su tutte le furie il suo vice leghista, Roberto Calderoli, che parlò di “simbolo fallico” chiedendone la rimozione anche con una raccolta di firme. Altri tempi, quando dalle parti del Carroccio il termine “Italia” era una parolaccia e Matteo Salvini era ancora segretario provinciale della Lega a Milano. «Se le critiche sono valide le accetto», conclude Vangi: «Le polemiche pretestuose invece mi avviliscono».
Altre Rassegne
- L'Espresso 2019.10.20
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di Emanuele Coen - Espresso.repubblica.it 2019.10.29
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