Per Rubbettino, Giuseppe Benedetto torna sul
tema dibattuto della separazione delle carriere
Nell’immaginario collettivo, plasmato dai gialli e dai legal thriller statunitensi, il processo penale è rappresentato da un’aula di tribunale con un accusatore che presenta le prove a carico dell’imputato, un avvocato che cerca di smontarle con la sua arringa e un giudice posto in alto – il più delle volte affiancato da una giuria popolare – che fa da arbitro: un giudice terzo e imparziale che dà e toglie la parola e si pronuncia sulle “obiezioni” delle parti. L’influenza culturale di questo immaginario è tale che molti sono portati a credere che anche il processo italiano si svolga con questa scenografia e con gli stessi attori, con ruoli ben definiti e differenziati tra loro.
Si tratta invece di un modello ben preciso di processo penale, il modello accusatorio, caratterizzato da una netta separazione tra giudice e accusatore, tra chi dovrà emettere la sentenza e chi ha l’onere di provare la colpevolezza dell’imputato. Un modello che in Italia è stato formalmente adottato solo nel 1988 con il nuovo codice di procedura penale, detto anche codice Pisapia-Vassali, dai nomi dei suoi principali ispiratori: il ministro della giustizia Giuliano Vassalli e l’avvocato e docente universitario Gian Domenico Pisapia.
Prima di allora in Italia vigeva dal 1930 il fascista codice Rocco, caratterizzato dalla figura del giudice istruttore, metà arbitro e metà accusatore: a questa figura spettava il compito di raccogliere le prove a carico dell’imputato per poi giudicarlo.
Quindi dal 1988 tutto è cambiato: ma è stata una vera rivoluzione? Non diamoci del tu – La separazione delle carriere (Rubbettino Editore, pp. 136, 16,00 €) dell’avvocato Giuseppe Benedetto tocca un tema ancora caldo e irrisolto: la distinzione tra giudice e pubblico ministero, tra arbitro e accusatore. Entrambi magistrati uniti dalla stessa formazione, dalla stessa carriera, dalle stesse prerogative.
Due modelli di cultura giuridica
Storicamente al modello accusatorio si contrappone il modello inquisitorio, un sistema caratterizzato dal predominio dell’inquisitore che indaga, raccoglie le prove, piega l’imputato con tutti i mezzi del potere coercitivo dello Stato e, infine, emette la sua sentenza. La prima parte di Non diamoci del tu è dedicata alla descrizione di questi due modelli, dalla loro genesi alla loro evoluzione, con l’intento di voler dimostrare come ognuno di essi interpreti una certa idea di stato-comunità. Fermo restando che difficilmente un sistema processual-penalistico rispecchia completamente le caratteristiche di un modello – e che quindi numerosi sono i casi di modelli c.d. “misti” – dal procedimento penale che una comunità sceglie di adottare si possono intuire quali sono i valori che intende esaltare e tutelare: «In una visione Stato-centrica il codice di procedura penale disciplina i modi per giungere alla condanna dell’autore di un reato; al contrario, il pensiero liberale ritiene il codice custode delle garanzie a tutela del diritto di difesa dell’individuo».
Il modello inquisitorio esalta la funzione dello stato nella repressione dei reati e del suo giudice come unico soggetto in grado di giungere alla verità del fatto-reato. Tutta la macchina della giustizia è preordinata a far confessare l’imputato o comunque a ottenere una condanna: il diritto di difesa è solo un’eventualità, spesso trattata con fastidio. Il modello accusatorio è espressione di una cultura giuridica liberale che vede la limitazione della libertà del singolo come extrema ratio: una violenza giustificata se necessaria a reprimere un reato ma solo nei casi e nei modi previsti dalla legge. Una legge – o meglio una costituzione – che riconosce il diritto di difesa come interesse pubblico da tutelare, non solo privato. Nel primo sistema è compito del giudice-inquisitore raccogliere le prove, il più in fretta possibile e in segreto: in questo modo si arriverà con maggiore efficacia al verdetto finale. Nel secondo sistema le prove si formano nel dibattimento, e cioè nel confronto dialettico tra accusa e difesa, sotto la tutela di un giudice terzo e imparziale.
Accusatorio, ma senza esagerare
Il processo penale italiano è stato caratterizzato per anni da una enorme contraddizione: la convivenza di una costituzione repubblicana improntata a principi social-liberali con un codice di procedura di impianto illiberale e fascista. Un sistema “misto”, con un pubblico ministero che esercitava l’azione penale affiancato a un giudice signore assoluto dell’attività istruttoria, e cioè della raccolta delle prove. Indagini per lo più segrete con dei risultati istruttori che l’avvocato difensore avrebbe potuto potenzialmente conoscere solo alla fine, a imputazione già scritta. L’autore delinea bene il lungo e tormentato processo che ha portato al definitivo superamento di questo impianto, così come la felice genesi del nuovo codice Vassalli-Pisapia, caratterizzata da una anomala convergenza tra accademia e parlamento. Ma proprio qui sta il vero nodo: questa evoluzione si è inceppata proprio sulla “nuova” distinzione tra giudice e pubblico ministero.
La tesi dell’autore si inserisce sul solco della letteratura che da tempo sottolinea la necessità di una netta distinzione tra magistratura giudicante e magistratura inquirente. Se pubblici ministeri e giudici esercitano funzioni distinte ma sono pur sempre “magistrati”, e cioè appartenenti a un medesimo ordine e scelti attraverso lo stesso concorso, in definitiva avranno una cultura comune. Entrambi tenderanno a riconoscersi come membri della medesima famiglia, esercenti il medesimo ruolo. La prossimità di queste due figure inevitabilmente taglia fuori la terza figura, la parte soggetta al giudizio penale: l’imputato e il suo difensore.
Questa vicinanza diventa ancora più problematica se si considerano le nuove figure che hanno sostituito il giudice istruttore: il giudice per le indagini preliminari (Gip) e il giudice dell’udienza preliminare (Gup). Il rischio è che queste figure, che dovrebbero presidiare la fase precedente al dibattimento e tutelare l’indagato/imputato, tendano ad aderire alle tesi del pubblico ministero con più facilità rispetto a quelle della difesa.
Insomma: l’evoluzione verso un vero rito accusatorio si sarebbe inceppata proprio nella ri-definizione delle parti in causa. Il pubblico ministero viene immaginato dal legislatore, all’art. 358 del codice di procedura penale, come una “parte-imparziale”: rappresentante dell’accusa che deve raccogliere gli elementi di prova per l’esercizio o meno dell’azione penale ma anche magistrato che «svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini». Un ossimoro, tra i tanti, che non permette la reale separazione dei ruoli all’interno del processo: «Porre l’accento sul ruolo del pubblico ministero come organo di giustizia significherebbe estendere notevolmente i suoi poteri e sottrarli al controllo giurisdizionale. Dietro l’illusoria asserzione di imparzialità dell’accusatore si nasconde la richiesta di maggiori poteri e meno vincoli. […] In sintesi, un PM parte richiede vincoli alla sua attività e rende il giudice terzo e imparziale; viceversa, un PM organo di giustizia conduce all’inquinamento del principio di legalità processuale e al giudice di parte».
Una proposta per una difficile, difficilissima riforma
Se Non diamoci del tu si limitasse a descrivere questo dibattuto e noto problema probabilmente rimarrebbe un testo interessante, ben scritto, seppur con un certo grado di inevitabile tecnicismo, ma niente di più. Invece il saggio offre un giusto equilibrio tra provocazione e proposta. All’analisi teorica e alla genesi storica si accompagnano infatti una comparazione con i sistemi di altri paesi e una proposta di revisione costituzionale, presentata con la Fondazione Luigi Einaudi (della quale l’autore è presidente). Non diamoci del tu si presenta con un apparato critico ben attrezzato proprio perché non va a toccare alcuni punti tradizionalmente colti da opere analoghe. L’autore infatti non sfiora nemmeno la fantomatica distinzione tra “giustizialisti” e “garantisti”, dimostrando di negarla alla base, né viene proposta come alternativa l’assoggettamento dei pubblici ministeri al Ministero della Giustizia e, quindi, al potere esecutivo. Allo stesso tempo non viene indicato come cuore del problema la possibilità che un giudice possa svolgere la funzione di Pm e viceversa, possibilità tra l’altro verificatasi in pochissimi casi e ridotta dalla recente riforma Cartabia a una volta soltanto nel corso della carriera del magistrato. Benedetto individua nel Consiglio superiore della magistratura il vero difetto. La proposta di riforma costituzionale, presentata in appendice al testo, intende aumentare il numero di componenti laici (e cioè eletti dal parlamento tra professori universitari e avvocati che esercitano da più di 15 anni) da 1⁄3 a ½. Ma, soprattutto, suggerisce lo sdoppiamento del CSM con la creazione di due consigli superiori: uno per i magistrati giudicanti e uno per i magistrati inquirenti. I Pm continuerebbero ad avere le medesime garanzie e prerogative di cui godono oggi ma l’organo che cura il proprio status e le proprie carriere sarebbe diverso da quello dei giudici.
Si tratta solo uno degli aspetti di una proposta ben scritta e che richiede un’attenta lettura del testo che la precede: solo in questo modo ne si potrà capire il senso e, eventualmente, la si potrà criticare a dovere. Così come merita una lettura la frizzante prefazione del ministro della giustizia Nordio, ad oggi figura particolarmente divisiva per le sue tesi.
Il libro è equilibrato e ben argomentato e lascia al lettore l’impressione di essersi confrontato con un impianto teorico serio. Allo stesso tempo, risulta difficile credere che a oggi, con questa radicalizzazione del (non)dibattito sul tema possa portare a qualcosa di più che ad una bella lettura. Ma a un libro che si legge bene e che fa riflettere non possono certo essere attribuite colpe che non gli spettano.
L’auspicio è che la collana di Rubbettino Problemi aperti, ospiti un contributo di pari livello ma di tesi opposta.