Tre date (il 7 gennaio, il 9 gennaio e il 13 novembre) e tre attentati (nella redazione di Charlie-Hebdo, in un supermercato kasher a Porte de Vincennes, poi in diversi ristoranti, allo Stade de France e al Bataclan) tutti in un solo anno: il 2015. Una città unica e speciale – Parigi – che da un momento all’altro viene colpita al cuore, violentata e privata di quella libertà che la contraddistingue e le fa onore – centinaia di vittime, un intero popolo coinvolto (e con esso l’Europa e il mondo), una giornalista televisiva che sente il bisogno di ricordare e di mettere su carta quanto avvenuto, quello che ha vissuto in prima persona non considerando l’inchiesta e l’analisi, ma concentrandosi solo sul ricordo, su quei momenti e su quello che ha provato, un mix di ansia e di preoccupazione con un’alta dose di paura, quella “per questo folle mondo capace di tanta crudeltà”.
Ciò che ne è venuto fuori è un libro, Il buio su Parigi, uscito nelle librerie italiane per Rubbettino due anni dopo quegli attacchi, “una catarsi vera e propria”, ci spiega l’autrice, Giovanna Pancheri, corrispondente per il tg di Sky prima da Bruxelles (dal 2009 al 2016) e poi, dallo scorso anno, per il Nord America.
Il libro inizia con un antefatto, il suo incontro, due anni prima degli attentati, con Stephane “Charb” Charbonnier, il direttore di Charlie-Hebdo, una scelta ovviamente non casuale, un vero e proprio omaggio. È così?
Lo ricordi come un uomo che non sorrideva mai e “dal laicismo senza appello”, “un talentuoso provocatore con il doppio senso sempre pronto”, ma – soprattutto – come un uomo mai piegato alla paura.
Non aveva paura, perché – come mi disse – cedere alla paura vuol dire rinunciare alla libertà e lui aveva sviluppato una reazione molto forte, perché comunque era stato privato anche lui della sua. Viveva sotto scorta e quella paura l’aveva in qualche maniera mitigata, ma non si piegò mai alla stessa e per arrivarci fece un grande sforzo su di sé. L’ultima vignetta pensata per il numero di Charlie-Hebdo di gennaio è significativa. Una frase – “ancora nessun attentato in Francia” – e un jihadista con un Ak47 che dice: “aspettate…c’è ancora tutto il mese di gennaio per portare i doni”. Il suo tratto da disegnatore graffiante e irriverente è stato premonitore, come se la mano fosse stata inconsciamente guidata da quella paura a cui Charb non ha mai voluto piegarsi. Era il capitano di una nave, consapevole di averla coinvolta, e con essa, tutto il suo equipaggio, il giornale con i suoi colleghi. Tutti i comici sono malinconici, ma lui durante il nostro incontro non sorrise mai, una cosa che mi colpì molto. Non aveva la paura, ma c’era un tarlo dentro di sé che gli bloccava la serenità.
Lui non aveva paura, ma tu sì, e in queste pagine non lo nascondi…
La mia è stata una sensazione particolare, un qualcosa che non ho mai provato prima perché sono una giornalista che per caso si è ritrovata inviata in un’Europa in guerra, cosa che normalmente non faccio. Io ero lì che assistevo al tutto, ma dovevo fare il mio lavoro; dovevo raccontare alle persone che mi guardavano in tv cosa stava succedendo e quando fai questo, è come se ti staccassi da tutto il resto, non pensi poi davvero molto. Tutto cambia quando si spegne la luce della telecamera: a quel punto ripensi alla cosa e inizi a sfogarti e a piangere con chi hai vicino – dai tecnici ai cameraman, senza i qual non sarei nessuno – o lontano – come il mio direttore, al telefono, i miei colleghi e altre persone a me vicine. Ci sono volte in cui questo mestiere si impossessa di te, occupa ogni tuo spazio e respiro, è subdolo: ti fa annusare la storia, te la fa toccare con mano e tu sei talmente coinvolto e vicino da cadere nell’errore di sentirti protagonista e non testimone. Per essere un buon osservatore e, dunque, poter veicolare e trasmettere al meglio un avvenimento, informando chi ti ascolta o chi ti legge, devi saper mettere la giusta distanza.
Oltre al ricordo di Charb, hai ascoltato la reazione politica francese e poi mondiale, ma soprattutto hai deciso di intervistare i protagonisti e i testimoni di quelle vicende. Pensiamo a Dario Solesin, fratello di Valeria (che questa sera sarà alla presentazione romana) unica vittima italiana al Bataclan, e a Hugo, un sopravvissuto all’attacco a cui hai dedicato uno dei capitoli più commoventi del libro, La birra più amara. Sei rimasta in contatto con loro?
Sì, lo sono con tutte le persone che ho sentito in quei mesi, perché con loro si è creato un legame speciale. Hugo l’ho visto proprio pochi giorni fa a Parigi per salutarlo e regalargli una copia del mio libro, è stato molto felice di rivedermi e anche io. Dario e Hugo sono le persone con cui ho legato di più, forse perché giovani ed emotivi, quelli che credono di più alla vita.
Nel suo romanzo più conosciuto, la scrittrice francese Maylis de Kerangal fa dire ad uno dei personaggi che bisogna pensare ai vivi, a quelli che restano e che è necessario seppellire i morti e “riparare i viventi”, come suggerisce il titolo. Le persone che hai incontrato sono state in qualche modo “riparate” grazie alle tue interviste e parole e a colpire è sempre la loro dignità nel ricordo, la loro voglia di ricordare le cose belle delle persone che hanno perdute, chi erano e come erano, mettendo da parte il dolore.
Ci sono state le vittime, ma chi si prende cura delle persone che sono rimaste? Me lo sono chiesta di continuo e me lo chiedo ancora. Ho cercato di farlo nel mio piccolo parlando con loro che hanno accettato di farlo, perché gli serviva qualcuno che non fosse la famiglia o lo psicologo.
Dopo il primo attacco del 7 gennaio 2015, scrivi, “qualcosa è cambiato”: in che senso?
Dopo il primo attentato, c’è stata la marcia a Place de la Répubblique, la grande solidarietà…era un qualcosa di diverso, perché erano stati colpiti il giornale, poi gli ebrei. Con il Bataclan ci si è resi conto che ad essere coinvolti non era solo “l’altro”, ma poteva essere chiunque: ci fu il divieto di manifestazione, meno gente e più paura, una cerimonia a Les Invalides solo con Hollande e le vittime, nessuna solidarietà esterna. Tutto questo è stato l’inizio del buio cui sono seguiti altri attentati, ma a Manchester e poi a Londra. La paura germogliata dalle ceneri e dal sangue di Parigi – come dico anche nel libro – è il primo atto di una guerra che ci siamo ritrovati improvvisamente in casa, una guerra in cui ognuno di noi si è riscoperto potenzialmente vittima e quella stessa paura si è rivelata come una minaccia latente all’armonia della nostra società, all’accoglienza e all’inclusione fino alla scommessa di un continente unito e più forte.
Come se ne esce?
Siamo in una fase complicata, L’Isis non ha più le armi di prima, ma coltelli e machete, un segno che si sta indebolendo… quando finirà tutto questo, ci sarà serenità e la paura passerà…ma la cosa che mi domando, invece, è quanto tempo ci vorrà ancora per eliminare la diffidenza nei confronti dei musulmani. È una situazione che ricorda molto quanto accaduto in America dopo gli attentati dell’11 settembre. Staremo a vedere.
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