Ci sono zone della cultura italiana contemporanea e, in special modo, quelle legate alla poesia dialettale che sono spesso considerate dei continenti misteriosi, ancora inesplorati, dagli studiosi e dai critici letterari che dovrebbero o potrebbero occuparsene e non lo fanno per difficoltà endogene ed esogene. Quelle endogene sono costituite dalle poesie stesse in esame e dalla loro più o meno esplicita cripticità, ermeticità o difficoltà espressiva; quelle esogene, esterne, invece sono legate alla scarsa conoscenza dei dialetti usati che, per effetto dell’omologazione culturale, del disuso e della disaffezione nei loro confronti non sono più effettivamente ben conosciuti neppure tra gli esperti di storia della poesia italiana. Giorgio Delia non appartiene al novero di tali studiosi disattenti, anzi ha investito molte delle sue energie di critico letterario, oltre che nello studio di Benedetto Croce come cultore di letteratura, in quello del poeta che predilige tra tutti: Albino Pierro. Il suo ultimo libro raccoglie, infatti, scritti e approntati su «opere di poesia edite fra il secondo Novecento e l’inizio del Duemila», in un arco di tempo non vastissimo ma sicuramente sufficiente a far comprendere il metodo di lavoro e la prospettiva di poetica di alcuni di essi (il saggio “Come lavorava Pierro” – alle pp. 67-112 del volume– è emblematico al riguardo) . Gli autori esaminati e analizzati non sono stati prescelti sulla base di limiti geografici o storici di sorta e sono stati esaminati a partire dal «meridiano più a sud dell’Italia», da luoghi inseriti in una dimensione ben definita della Basilicata (Albino Pierro, Domenico Brancale), della Calabria (Giacinto Luzzi, Dante Maffia), della Sicilia (Nino De Vita), e «nel momento in cui ne hanno avvertito maggiormente lo stato di abbandono perché giammai rassegnati alla morte dei dialetti» (p. 7). E’ la fedeltà al dialetto natio, allora, una delle caratteristiche della poetica di questi autori e uno dei vettori di ricerca utilizzati da Delia. Nei dodici capitoli che compongono il libro di Delia, il posto principale è occupato dalla riflessione su Pierro e la sua produzione poetica: il testo già citato sull’officina lirica del poeta di Tursi di Matera esplora con sicura consapevolezza il metodo di composizione usato dall’autore analizzato e ne configura temi e lessemi a partire dalla riscrittura in dialetto di un testo, il Don Nicola, che lo studioso scompone e ricompone a più riprese per verificarne dall’interno il sistema di funzionamento. L’Appendice che contiene disposte su tre colonne le diverse varianti che illustrano le metamorfosi dell’opera esaminata è del tutto esaustiva, rigorosa, completa ed adeguatamente esplicativa al riguardo mentre illustra esaurientemente i passaggi che hanno portato al testo definitivo e alla sua stesura compiuta. La stessa metodologia si può dire applicata alla ricostruzione dell’opera poetica di Giacinto Luzzi e al suo Bufera, opera teatrale di straordinaria densità e di forti pulsioni tragiche, tanto da esibire, secondo il suo analizzatore, la marca estetica di “sublime dal basso”. Analoga operazione viene compiuta con Dante Maffia definito «uno degli autori più prolifici e poliedrici della letteratura tra fine Novecento e inizio Duemila» (p. 169) e inseguito lungo tutto l’arco della sua vastissima produzione in versi e in particolare per quanto riguarda quella in dialetto calabrese che viene coniugato però nella sua accezione di lingua globale senza evitare il confronto con lessemi “bassi” o spesso prospicienti il fescennino. La lunga “Introduzione alla poesia di Nino De Vita” (pp. 187-209) individua nel profilo dell’opera del poeta dialettale siciliano la caratteristica stabile di una contaminazione esibita tra «esperienza e memoria, denuncia e favolistica evasione» (p. 199) e permette di analizzarne l’evoluzione come processo di moltiplicazione stilistica delle soluzioni poetiche (tra cui Delia precisa il valore aggiunto dell’enumerazione come tratto distintivo). Anche di Domenico Brancale, infine, vengono precisati quegli elementi di caratterizzazione lirica che lo portano a privilegiare il rapporto con le arti visive, in particolare la pittura – come viene testimoniato in un saggio che mette in rapporto la sua poesia con le opere del pittore francese Hervé Bordas e ne enuclea la volontà di scrivere versi che non assomiglino tanto ad immagini quanto a testi lirici che ad esse possano essere equiparate. Ma quello che unifica il libro di Delia e lo rende un prodotto di notevole interesse nella stagione critica presente è la sua volontà di mettere in evidenza la lingua al di là dell’ideologia, la forma espressiva dei testi presi in considerazione (ma senza, ovviamente, trascurare i contenuti delle opere analizzate) rispetto alla concezione del mondo che veicolano, la qualità dello stile rispetto all’originalità a tutti i costi della scrittura. Il suo obiettivo è stato espresso in un passo di grande interesse contenuto nell’Avvertenza preposta al volume: «Ognuno degli autori proposti è stato interprete di un dialetto/idioletto nella tipologia più periferica, marginale e arcaicizzante, assolutamente vergine di tradizione scritta, il più consentaneo per esprimere l’essenza della verità. Il più giovane (secondo nella serie) è solito ripetere: “col dialetto non si può mentire, fa parte del corpo e il corpo non mente”» (p. 9). A questo ammonimento di Domenico Brancale, infatti, Delia è stato molto attento nel corso della sua indagine e ha saputo cogliere nella lingua “bassa” del dialetto la chiave volta di un’altra possibile declinazione della poesia come forma privilegiata di comunicazione dei sentimenti e dei desideri della soggettività del presente e come contraltare, spesso autorevole e vincente, di una poesia “alta” spesso inerte e inchiodata alla sua prospettiva di adeguamento a un passato che non riesce più a parlare in modo necessario e cogente e a venire così incontro alle necessità del momento attuale.
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