“Tu hai il tuo mestiere in qualsiasi parte del mondo”.
“Un mestiere che non serve a niente”.
“Serve. I mestieri sono di Dio”.
Scrivere, le ha insegnato sua nonna, è un mestiere che si porta nel sangue come un peso ineluttabile, una iattura per conto terzi, un presagio gravido di disgrazia passata e futura. Un mestiere che non le appartiene – mestiere di Dio – ma che le scorre dentro e la conforma, guida le sue mani, i suoi intenti, un mestiere che mi ha perseguitato come un marchio indelebile, il metabolismo della mia razza. La causa di tutto il mio agire.
Nora è talmente dentro le lettere che scrive e che legge perché i lembi tra l’Italia e l’America, tra l’Italia e il mondo, siano più vicini, che le loro storie se le porta addosso come una pelle di riserva. Pelle scorticata, larvata di sofferenza e perciò degna di essere raccolta, testimoniata, registrata.
Sono storia sua l’attesa, il rifiuto, l’abbandono, l’amore, la dignità del silenzio, la rassegnazione della comprensione. C’è troppa acqua tra l’Italia e New York, troppa tra l’Italia e Buenos Aires per fare commercio di dolore, per non sentirsene parte. Non chiedevamo soldi neanche alle madri che avevano figli in America. Era la nostra norma. Andava più sangue che inchiostro, più silenzio che parole, in quelle lettere. Impossibile farsi pagare per tutto ciò.
Il suo mestiere è decriptare pensieri ingarbugliati dentro una lingua sprovvista di parole, lingue di madri e di mogli, specialmente, che chiedono notizie e in qualche modo chiedono conto della beffa della povertà che smembra cuori e alberi genealogici. Ma la povertà trova ricetto solo quando opera la dissezione dello sradicamento e a volte – troppo spesso – neanche allora, quando gli occhi si aggrappano ostinati alle banchine mentre le navi salpano e di chi parte si intuisce solo un braccio che si agita nell’aria e di chi resta si definiscono solo spalle curve che già portano tutto il peso dell’acciaio della nave, del cemento dei moli, delle tonnellate di acqua tra un mondo e l’altro. È una divaricazione che ha nelle pieghe un presagio di morte perché è questo, la lontananza: volti che sfuocano nella memoria man mano che il tempo butta loro addosso palate di terra; la percezione che il mare è profondo e spegne le voci e le loro eco e nel silenzio che ne consegue annegano i profili dei giorni insieme e rimane solo l’alone via via più sbiadito di una nostalgia malata, di una rassegnazione ottusa, di un rancore che suppura in schiumose bolle cupe di odio.
È l’agonia dell’emigrazione che Nora tenta di lenire cucendo lettere per l’aldilà, per quelle donne che non ne sanno di geografia o ne sanno il giusto per intuire che ci sono distanze che non si colmano, come ci sono ingiustizie che non si sanano. Ma quando si aspetta, la geografia è un garbuglio per chiunque e non ha alcuna importanza se hai gli studi o non li hai: l’attesa è un roveto ardente in cui la promessa è più forte della logica che ti suggerisce da quale parte ti arriverà l’aiuto. Anch’io agognavo una lettera. Allora la geografia mi si aggrovigliava dinanzi agli occhi come a qualunque analfabeta. E anche se era arrivata una nave da New York, io lo stesso mi aspettavo una lettera dal Chaco. Venivo posseduta dall’assurdo desiderio che la carta geografica e le vie marittime non fossero più elementi esatti, purché ci fosse una lettera anche per me.
Una lettera anche per Nora, lei che è allegata alla massa dei corpi che non valgono la traversata e non valgono i sogni che essa promette. Corpi rotti bloccati al confine, rispediti indietro perché inutili al progresso, corpi che non meritano, corpi minori, corpi che galleggiano in un limbo fatto di carte e di timbri e sguardi che si accecano per riannodare a sé i corpi sani e smarriti ovunque tra l’Europa, l’America, l’Australia. La legge si fa beffe delle famiglie spaccate, delle figlie lasciate alle spalle perché partire si deve pur partire, la fame non è un argomento che si possa procrastinare e la speranza è una bagascia che vende cara la pelle ed è sempre l’ultima a morire. E poi ci sono le lettere, muffa della consolazione, fragile rammendo sullo sbrago del torto, che portano notizie già scadute, fuori tempo e che alimentano la fama mostruosa di un paese che ingoia vivi e restituisce silenzi lucidi e duri come ossa spolpate. Che l’America ingoiasse gli uomini della mia terra, io ne ero convinta. E non perché lo dicevano le donne del paese, ma perché era un fatto provato. Vero era che non solo inghiottiva i maschi, ma anche le donne, le padrone della razza.
La storia di Nora è la storia dell’emigrazione. La storia incarnata di tutte le emigrazioni da qualsiasi punto cardinale le si guardi, le si studi, le si legga e le si analizzi. Non si vede l’ora di partire e quando si arriva si sperimenta lo straniamento di chi sente l’estraneità respingente della terra in cui approda e non ha più come recuperare il filo slacciato della terra lasciata alle spalle. Non si sente di appartenere ad alcun luogo, si fluttua e si oscilla tra l’aspirazione e la nostalgia, la necessità e il rimpianto. A metà strada, sempre, mai del tutto da una parte, mai del tutto dall’altra. Io avrei preferito vivere la guerra, con tutti i suoi orrori, piuttosto che soffrire il quotidiano faccia a faccia con la famiglia disgregata, con un Paese inafferrabile, con un vivere spoglio di tutto ciò di cui profondamente abbiamo bisogno. È molto duro trovarci a ogni passo con la zona minata che unisce e separa i due mondi. La guerra dura un anno, quattro, dieci. Questa confusione, o il terribile errore di stare qui, dura troppo.
Come si cura la divaricazione tra le sponde, l’onta di un corpo rigettato, fatto passare a forza tra le maglie della burocrazia, se una cura c’è per cicatrizzare la smagliatura e impedire che il suo tratto livido riacutizzi il bruciore dello strappo? Il mio viaggio in America si risolse quindi in una specie di contrabbando: io ero come un prodotto deteriorato che doveva passare inavvertito, intrufolato fra i prodotti destinati all’esportazione: gli emigranti idonei. Ero un clandestino che riesce ad arrampicarsi sulla nave. Poi, la pietà mi avrebbe ammessa.
Nora al destino ha chiesto soltanto una cosa: essere amata di una forma di amore assoluta che prevaricasse il corpo storto, fosse cieca davanti alla miseria, non contemplasse lo slabbramento che è sinonimo di oblio. L’amore come rivincita, l’amore come vendetta. Era necessario che qualcuno distruggesse in me quell’accumulo di attese. Qualcuno doveva cancellare il molo di Trieste perché anch’io potessi salpare.
L’amore da utilizzare come specchio dentro il quale guardarsi e riconoscere la ferita non più come limite e piaga, ma come parte di sé – di presente e di passato – accolta e accettata, curata e mondata da un peccato originale che traccia una linea dirupo tra chi merita di esistere e aspirare alla bellezza e chi invece porta marcata sulla schiena l’indegnità e non ha neanche la possibilità di rivendicare per sé il diritto a sognare un brandello sfilacciato di felicità.
Quando si porta su di sé la storia della tonnellata umana – per citare l’intellettuale calabrese Pasquino Crupi – che sfolla per terre straniere alla ricerca di fortuna, senza conoscere lingue fuori dai propri dialetti e col marchio del manzo da macello, tizzone di carbone nella caldaia del capitalismo, ci sono solo due strade che si possono prendere per elaborare quel che si è, ciò in cui l’emigrazione trasforma. Ci si può arrampicare sulle spalle di chi non ha la forza di sollevarsi, fare dei corpi deboli una montagna sulla quale spiccare a forza di pugni e sorda indifferenza, oppure si può annegare nella massa, farsi assorbire dal suo refrattario moto ondoso. Essere in essa perché non si può essere altrove. Mi sentivo impigliata in quella rete in cui mi sono sempre dibattuta, sommersa insieme agli altri, spintonata da quelli che si appoggiano a me per farsi largo. Forse sono anch’io un naufrago che si attacca agli altri naufraghi per sopravvivere in questo isolotto di confinati. Non sono altro che un’esiliata dall’amore che si afferra a un legno, o a una fragile imbarcazione, come può essere Valentina. Una imbarcazione sul punto di colare a picco. Loro si arrampicano su di me. Mi saccheggiano, e se ne vanno. E se ne vanno con indifferenza.
Lasciarsi razziare, depredare, morsicare, sopraffare, l’amore è anche questo: non voltarsi fingendo di non aver sentito una richiesta di aiuto, lo schianto di un corpo respinto che grida mamma e papà, la eco di quelle voci che aspettano soffocate dalle leggi arcigne di un paese che pretende per sé solo carne pregiata e a mare gli scarti, gli storpi, i malati, i dementi. Per loro non c’è paese di Bengodi, ma solo questua e carte false e porte in faccia. La loro unica speranza è correre a correggere la fortuna – per citare Fabrizio De André – con una traduzione giurata che ometta un dettaglio, che anticipi un numero, che ammorbidisca un referto. È un mestiere di Dio – mentire per amore – il mestiere di Nora. io non so, in definitiva, in che cosa consista l’etica. Io non vedo mai i limiti del bene e del male, di fronte alla valanga di amore o di avversione che mi rapisce. Ciò che mi giunge attraverso la pelle, questa pelle saggia e arbitraria, è più potente della chiarezza razionale. Chissà che forse la più alta intelligenza non sia altro che intuizione pura.
Ma un mestiere sciacallo sarebbe il mestiere che non sia illuminato – ancora, ancora – dalla lampada dell’amore; l’amore che ti proietta dentro la disperazione, l’attesa e la carne dell’altro. L’amore che incarna il tuo corpo e incombe sul tuo corpo come una protezione, un sortilegio, un incantesimo. L’amore che incarna il tuo corpo nel corpo dell’altro, nei suoi polmoni pieni di acqua, nella sua testa che ciondola, nella sua gobba accentuata, dentro il suo ventre che si riempie e si svuota celando al contempo una vergogna e un rimorso.
Per amore si fanno le cose peggiori. Per amore, solo per amore, perché è così che si cura il rancore, solo così si può sperare di sopravvivere. Nell’amore, solo nell’amore. Noi che viviamo spinti dalla realtà, sul filo degli avvenimenti più fortuiti, ma con il cuore vigile, sappiamo che da qualunque parte ci può venire incontro uno sconosciuto che subito si mette in gioco per noi. Un passante qualsiasi, che poi se ne va. O che siamo noi a lasciare.
Una tonnara di presenze che entrano ed escono dalle nostre vite, che sono necessarie per sentire di appartenere al mondo dei vivi e necessarie a una solitudine che ci inzuppa come guazza e che chiede solo di essere riempita, popolata, abitata.
C’è stata gente con me. Gente per la mia solitudine.
L’amore è il filo teso dall’inizio alla fine di Gente con me, appassionato, lirico, poetico, struggente romanzo di Syria Poletti (Rubbettino, per la traduzione di Claudia Razza). Un cantico dolente, lacerato alle vite sfarinate dall’emigrazione; un controcanto spietato dell’abominevole tritacarne che è stata l’emigrazione, il fulmine di dolore che ha incenerito milioni di esistenze condannandole all’irreversibilità degli spazi.
Gente con me è l’insieme della massa informe di emigranti idonei e non idonei che si sono affacciati sulle sponde di una prospettiva di benessere e che legalmente o illegalmente vi si sono tuffati dentro spesso senza sapere nuotare, senza avere mai visto il mare, senza mai essere usciti dai loro minuscoli paesi. Una galassia di gente povera e analfabeta, buona per essere trinciata come foglie di tabacco, disorientata dall’ubriacatura del viaggio, dalla solitudine degli spazi aperti, dall’iniquità sociale e storica che li ha costretti a partire per guadagnarsi il pane laddove i ricchi non hanno bisogno di guadagnarsi il pane! E nemmeno di emigrare!.
Tra di noi, chiunque può vantare un pezzo di famiglia emigrata e costruire, sulle foto messe in posa coi vestiti buoni e i sorrisi tirati, una narrazione costellata di mito e di amarezza. Abbiamo cartoline dal Belgio, dalla Germania, dal Canada. Abbiamo morti a Marcinelle e gente imbarcata sui transatlantici per New York, occupata a camuffare in ogni modo il patimento del viaggio, le facce peste, gli occhi gonfi, l’accumulo di mal di mare in attesa delle verifiche mediche a Ellis Island durante le quali anche solo un dente guasto l’avrebbe potuta rispedire a casa. Chi veniva vidimato come sano – come idoneo – era disposto a qualsiasi lavoro pur di tenersi stretta l’illusione del successo e, perché no, della ricchezza: scavare fossati in Africa, mettere dinamite nelle miniere del Belgio, fondere l’acciaio in Germania, costruire grattacieli a New York e segare boschi nel Chaco. Erano gli eletti del progresso. O i loro schiavi.
Non tutti quelli che sono partiti hanno fatto fortuna, però, anche se le foto raccontano – vorrebbero raccontare – il contrario, anche se le lettere scongiurano il fallimento e hanno quella nota esasperata di ottimismo che è buona per chi ci crede e per chi spera è l’anticamera del lutto per chi ne intuisce la corda stonata.
Il cuore del fallimento, della desolazione, dello sfruttamento è il cuore pulsante di Gente con me. Un cuore cupo, sanguinante, arso. Non ci si aspetti distensione nella scrittura di Syria Poletti, il suo stile è una gemma sommersa che pulsa di rabbia e di disincanto. Una volta intercettato il suo bagliore verderame, la metrica del suo narrare è una scheggia nell’occhio. Prude, brucia, provoca ad uscire. Pretende che non si stia solo a contemplare la bellezza monumentale della sua poetica, ma insiste affinché si ceda a spalancare lo sbigottimento e ci si faccia carne che assorba l’enormità della storia e dell’ingiustizia, la risacca del disprezzo, la palestra dell’umiliazione a cui donne, uomini, figlie e figli, madri e padri, mogli e sorelle e fratelli hanno sacrificato molto più della loro vita. È memoria che ci appartiene nella geometria concentrica delle storie che Poletti intreccia e in un punto della curvatura delle quali ci siamo anche noi. In qualche modo ci siamo perché non abbiamo mai smesso di emigrare, di colonizzare colonizzati, di morire fuori dalla vista degli unici occhi amorevoli sulle nostre spoglie. Non abbiamo mai smesso di partire come Abramo, ignaro della strada e della destinazione. E non smettiamo di scindere i corpi in utili e inutili, di appiccicare matricole di riconoscimento sulla fronte di chi non serve, di chi è legittimato a passare e di chi invece deve subire lo scorno di ritornare indietro.
Ecco perché Gente con me è tanto attuale quanto necessario: perché è un romanzo del presente, un romanzo che non tramonta, un romanzo che racconta una cronaca dell’oggi e che, raccontando la miseria dello spatriare, invoca per lo sguardo un nuovo umanesimo, una ritrovata coscienza del bene che si imperni sulla consapevolezza che la compassione, se non salva il mondo e non impedisce al genere umano di slacciarsi e perdersi, almeno guardi con amore a quella sfaldatura e se ne prenda cura dall’alfa della causa all’omega delle conseguenze.
Questo è un romanzo dal quale non si può uscire vivi, né si può uscire interi. È una ruota di mulino che schiaccia carne e ossa e obbliga a un silenzio lungo giorni, dopo che lo si è finito di leggere. Ubriaca, smarrisce, strania e poi costringe a una rielaborazione nella quale le parole, invece, sfrecciano, esplodono, rimbombano.
Forse è questo che dovrebbe fare la letteratura: lasciare senza parole e poi fare del corpo una conca dalla quale attingerne senza fine. Una per ogni sottile sfumatura emotiva percepita, una per ogni immagine cristallizzata dentro gli occhi, una per ogni volta che hai perso il respiro e una per ogni volta che il tuo cuore ha perso un giro.