Il libro dal titolo Gens genti lupa. Thomas Hobbes e le relazioni internazionali, è il frutto del lavoro dottorale, analizza il pensiero dell’autore del Leviatano con particolare riferimento alla sua figura di filoso delle relazioni internazionali. Intervista con l’autore.
Il libro dal titolo Gens genti lupa. Thomas Hobbes e le relazioni internazionali, è il frutto del lavoro dottorale, analizza il pensiero dell’autore del Leviatano con particolare riferimento alla sua figura di filoso delle relazioni internazionali.
Davide Ragnolini, dottore di ricerca in Filosofia presso il Consorzio Filosofia del Nord Ovest, ha svolto un periodo di visiting presso la Cardiff School of Law and Politics, è cultore della materia in Storia del pensiero politico oltre che analista politico presso il think thank “Analytica for intelligence and security studies”, porta all’attenzione del lettore il contributo di Thomas Hobbes (1588-1679) al tema delle relazioni internazionali (IR).
Intervista con l’autore
Perché un libro su Hobbes e le relazioni internazionali e a chi è destinato?
Hobbes è un filosofo che può essere studiato dal punto di vista della teologia (Historia Ecclesiastica; Questions concerning Liberty; An Answer to Bishop Bramhall; Leviathan – III, IV, e la sua Appendix), logica (De corpore – I); ontologia (Objectiones ad Cartesii; De motu, loco et tempore; De Corpore – II, Liberty and Necessity), o meglio “philosophia prima” (il termine “ontologia” appare soltanto con il “Lexicon Philosophicum” di Goclenius, del 1612, ma non era diffuso come si crede anacronisticamente nel XX secolo); etica e politica (Elements; De Cive, Leviathan; De homine); diritto (Dialogue); storia politica (traduzione di Tucidide, Behemoth); e perfino estetica (De mirabilibus pecci; Answer to Sir William Davenant’s Preface; le prefazioni alle traduzioni omeriche). Insomma, nell’opera hobbesiana emerge un pensiero sistematico che eccede il ‘canone’ politico moderno, in cui spesso è scolasticamente relegato.
Il diritto internazionale (o meglio lo “ius gentium”, come fu chiamato fino a Jeremy Bentham) nell’intera opera del malmesburiense appare curiosamente in pochi luoghi. Significativamente, i suoi Elements – che rappresentano la sua prima opera filosofico-politica – si chiudevano proprio con un riferimento al diritto delle genti, identificato con la legge di natura. Nel complesso, Hobbes non offrì una trattazione ampia del tema dei rapporti tra gli Stati (inter gentes) e della guerra (bellum justum). Eppure nel tempo Hobbes divenne, retrospettivamente, un ‘padre fondatore’ della tradizione del pensiero politico internazionale. La ragione di questa asimmetria filologica ed ermeneutica, cioè tra l’opera hobbesiana e la ricezione dei posteri, è da rinvenire nella sua radicale interpretazione dello ius gentium. Molti interpreti hanno notato la sovrapposizione semantica di diritto delle genti e diritto naturale nell’opera hobbesiana (da Goldsmith a Gauthier).
Tuttavia, una piena teorizzazione – e soprattutto una ricostruzione genealogica – di questa audace prospettiva del malmesburiense non ha interessato gli studiosi di Hobbes. Semmai, alcuni suoi lettori nell’ambito delle Relazioni Internazionali. L’ambizione del libro è di tenere assieme i due piani – filologico ed ermeneutico – per restituire un’immagina unitaria di Hobbes all’interno della varietà di interpretazioni ‘internazionalistiche’ emerse dal XVII al XX secolo. E con particolare attenzione alla biografia intellettuale di Hobbes e alla politica – per dirla con Koskeniemmi – ‘pre-internazionale’ del suo tempo.
Un aspetto importante riguarda Hobbes e lo ius maris. Perché la posizione del filosofo inglese sul tema viene definita “ondivaga”?
Nelle “storie dottrinali del diritto internazionale”, per dirla con Tetsuya Toyoda, la questione della libertas maris ha rappresentato un punto di avvio importante per la tradizione giusinternazionalistica moderna. Proprio nella prima metà del XVII secolo, Grozio e Selden – e soprattutto i loro rispettivi epigoni – diedero inizio alla famosa “guerra libresca dei 100 anni”, come la definì lo storico belga Ernst Nys. All’interno del dibattito britannico, tra il XVI e il XVII secolo, le posizioni oscillarono tra la linea della libertas maris, cioè della libertà di commercio e navigazione, e la dottrina del mare clausum, ovvero del dominio sul mare. Da un lato c’era l’esigenza di indebolire – in particolare durante il regno elisabettiano – le pretensioni del blocco spagnolo-papista al dominium mundi nelle terre d’oltremare; dall’altro, di tutelare l’egemonia inglese e i titoli di pesca nel mar del Nord per contenere la competizione dei vicini olandesi. Quest’ultimo orientamento si rafforzò durante l’intero periodo stuartiano, ed ebbe come modello giuridico precedente al mare clausum di Selden le istanze proto-mercantiliste scozzesi all’inizio del XVII secolo (in particolare con l’opera di William Welwood). Hobbes fu testimone di questa metamorfosi della geopolitica stuartiana. È noto che il Leviathan di Hobbes apparve nel 1651, lo stesso anno del Navigation Act di Cromwell. Meno noto, anche se ricordato da Carl Schmitt, che l’opera di Hobbes apparve un anno successivo rispetto ad un importante contributo al dibattito: lo Iuris et iudicii fecialis di Richard Zouch. In quest’opera è riflessa, pur con grande padronanza della tradizione giuridica sul tema, l’ambiguità politica inglese nel rapporto verso la libertas maris. Proprio la questione della libertà di commercio ‘scomparirà’ dalle leggi di natura di Hobbes nelle opere successive agli Elements, quindi dal 1640 in avanti. Questa omissione mi ha colpito.
Il rapporto tra Hobbes verso questo problema mi è parso un utile ‘cartina di tornasole’ per misurare due aspetti: da un lato la posizione di Hobbes in un dibattito filosofico-giuridico avviato (e poi egemonizzato) con grande fortuna dal mare liberum di Grozio; dall’altro, per studiare come Hobbes concretamente concepì l’amministrazione di alcune questioni di diritto internazionale nel XVII secolo. Più indizi, che ho cercato di indagare, lasciano supporre un’adesione del malmesburiense alla linea seldeniana, ma a seguito di un mutamento di opinione sul tema. La mia tesi è che Hobbes, seppur in modo implicito, partecipi di questa importate “battaglia libresca” del diritto internazionale, e che proprio questo dibattito modificò, in parte, la sua concezione delle leggi di natura tra i popoli.
Non si tratta di un problema astratto, né di una curiosità storiografica: mi è sembrato un tassello importante per ricostruire il pensiero dello Hobbes ‘internazionalistico’. In fondo, il problema dell’esistenza di un diritto naturale ad res da parte degli Stati rimane, ancora oggi, una questione fondamentale per un ordine normativo nella gestione delle risorse terrestri, dello spazio virtuale e, in futuro, extraterrestre. Nel dibattito seicentesco abbiamo il prototipo di questo problema giuridico.
L’anarchia intesa come “rapporti di forza effettivi e non le sovrastrutture ideologiche” costituisce un elemento determinante per la teoria realistica delle relazioni internazionali. E’ ancora così?
Hobbes risolve la questione dell’anarchia sul piano domestico (cioè tra individui), ma lascia aperta la questione sul piano internazionale (cioè nei rapporti tra Stati). Questo è un aspetto affascinante del suo impianto filosofico-giuridico, e ricco di conseguenze. La politica internazionale diventa così la prosecuzione dell’anarchia con altri mezzi, ovvero uno stato di natura internazionale. Ora, le interpretazioni su questo problema, in relazione alla teoria hobbesiana, sono state molte. Ho cercato di riordinarle nella prima parte del volume. In sintesi, possono essere suddivise tra un primo gruppo orientato a giustificare l’esistenza di un’anarchia limitata tra gli Stati – Cornelia Navari la chiamò “stato di natura addomesticato” – in forza della maggiore autosufficienza dei singoli Stati, che li rendono disponibili cioè ad aderire senza pregiudizio per la propria sicurezza a norme internazionali (le “leggi naturali”); per converso, un’altra interpretazione ha insistito proprio sull’autosufficienza degli Stati, quindi la loro uguaglianza normativa, per sostenere l’impossibilità di una cooperazione internazionale. Dunque gli Stati possono o cooperare perché sufficientemente sicuri, ma questo richiede almeno una superiorità, quindi una condizione di diseguaglianza verso la controparte, oppure non cooperare in virtù della loro uguaglianza e reciproco timore. Questo significa che un diritto internazionale diverso dallo stesso “diritto naturale”, almeno all’interno di una prospettiva neo-hobbesiana, è difficile da concepire. Del resto, è il cosiddetto paradosso dell’halfway house argument, che ho ricordato in Gens genti lupa (Cap. I, 7): se gli Stati fossero concordi per uscire dallo stato di natura, dovrebbero in primo luogo concordare sulle leggi naturali; ma, se concordassero già su queste, in secondo luogo non avrebbero nemmeno bisogno di un diritto internazionale (consuetudinario o positivo). Al di sopra dei rapporti di forza tra gli Stati, quindi, ogni costruzione giuridica apparirebbe – hobbesianamente – una “superstructure” (come il filosofo inglese ebbe a dire a proposito delle false credenze costruite sui fondamenti della religione cristiana, nel cap. XLIII del Leviathan).
Ecco, la piena identificazione hobbesiana di legge naturale e diritto internazionale, mi sembra un tratto tipico della scuola realista delle Relazioni Internazionali, la quale muove dal presupposto dell’anarchia tra gli Stati, ovvero dall’assenza di un potere superiore agli Stati. In tal senso la scuola realista (da Morgenthau a Mearsheimer), nonostante il forte pluralismo metodologico all’interno della disciplina delle Relazioni Internazionali, costituisce un punto di riferimento ancora centrale per interpretare le relazioni tra gli Stati. E non si può non dire, in un certo senso, neo-hobbesiana.
La figura di Hobbes è generalmente associata alla sopracitata teoria realistica delle relazioni internazionali. Ma nel corso della storia più volte Hobbes è stato associato ad altre “correnti”. Ci può indicare quali sono le principali associazioni e se le reputa in qualche modo corrette.
David Boucher ha parlato del processo di assimilazione e piena inclusione di Hobbes tra i padri fondatori della scuola realista come ad una “appropriazione di Hobbes”. Indubbiamente ogni appropriazione comporta una forzatura, in questo caso un abuso ermeneutico dell’opera hobbesiana, la quale non sempre è stata letta con attenzione nell’ambito degli studi internazionalistici. Per dirla con ironicamente con Murray Forsyth, questa tendenza ha portato a fare del nome “Hobbes” una sorta di “abbreviazione stenografica” per un particolare tipo di approccio alla politica internazionale. Questo difetto metodologico, però, è comune anche ad altri orientamenti anti-realisti di Hobbes, unilaterali nella loro interpretazione.
Proprio a partire dalla sovrapposizione di legge naturale e diritto internazionale non si è mancato di vedere nel malmesburiense una piena moralizzazione, in chiave anti-positivistica, del diritto tra gli Stati (C. Covell, 2004), o addirittura un precursore di Kant per la valorizzazione della legge non scritta nei rapporti interstatuali (L. May, 2013); altri, al contrario, hanno tentato di sostenere un presunto irenismo hobbesiano proprio a partire dall’inammissibile sovrapposizione di diritto naturale e diritto internazionale, che equivarrebbe accettare l’assurda logica dello “stolto” rigettata da Hobbes (D. Dyzenhaus, 2014 e A.F. Lang, 2016): lo “stolto” hobbesiano, infatti, corrisponde ad un individuo che non mantiene alcun patto pensando di massimizzare il proprio vantaggio; altri ancora, hanno sostenuto un’incompatibilità di ogni approccio strutturalista alle relazioni internazionali – tipicamente realista – con lo scetticismo di fondo che connota l’approccio di Hobbes alla politica, e dunque l’imprevedibilità della politica internazionale secondo schemi statici di potere (A. Wendt, 1999). Il merito delle interpretazioni anti-realiste è stato certamente quello di rendere plurale il dibattito sullo Hobbes ‘internazionalistico’. Tuttavia, si tratta di chiavi di lettura piuttosto inferenziali e anacronistiche rispetto alla prospettiva del malmesburiense. Il volume vorrebbe essere sì un vademecum nel dedalo di queste interpretazioni, ma con l’ambizione di integrarle con una maggiore contestualizzazione storica della figura e del pensiero hobbesiani sulle relazioni tra gli Stati.
In cosa oggi è possibile ritrovare il pensiero di Hobbes nelle relazioni internazionali?
Numerosi studiosi e interpreti delle Relazioni Internazionali hanno insistito sull’attualità di Hobbes. E non mi riferisco alla facile riduzione dell’hobbesismo a mero puntello delle politiche di lockdown nei diversi Paesi. La vitalità del pensiero hobbesiano risiede proprio nelle aporie, ancora aperte, attorno al diritto internazionale. In Gens genti lupa ho ricordato come Hobbes rappresenti, ancora oggi, il convitato di pietra nel dibattito sul diritto e la politica internazionale: Robert Kaplan in Revenge of Geography (2012) ha definito Hobbes come “il filosofo del secondo ciclo del periodo post-Guerra Fredda”; Benedict Kingsbury ha sostenuto che nella tradizione del pensiero internazionalistico occidentale il pensiero di Hobbes avrebbe costituito il problema filosofico-giuridico più grande; ancora: per Strobe Talbott l’idea che la competizione geopolitica sia un gioco a somma zero rappresenta un’eredità hobbesiana condivisa dai nuovi Leviatani (ad es. Russia e Cina, ma non solo). Insomma, lo Hobbes internazionalistico costituisce un punto di riferimento teorico imprescindibile per pensare sia alle insidie della politica internazionale del XXI secolo, sia ai limiti degli orientamenti liberali-idealisti – così come furono delineati nella magistrale opera di Edward Carr, Utopia e realtà (1939), a buona ragione ritratta come essenzialmente ‘hobbesiana’. Almeno in questo, credo, in Hobbes possiamo leggere un ‘maestro del sospetto’ della politica internazionale e, forse, una pietra miliare nell’evoluzione delle scuole filosofico-giuridiche attorno al diritto tra gli Stati (sia moderne che contemporanee).