Cos’è che può far diventare “qualcosa” oggetto d’attenzione storiografica? Giuseppe Monsagrati, in “Garibaldipoli e altre storie di terra e di mare” (Rubbettino, Soveria Mannelli 2021) propone anche evanescenti genii locorum, le tradizioni degli indigeni, le aspirazioni di chi in certi luoghi è vissuto, e persino quelle speculazioni che su di esse qualcun’altro, in maniera disinvolta, se non proprio truffaldina, ha tentato di porre in atto. Per cui il viaggio nel passato si riproduce, oltre che in un itinerario nel tempo presente, anche nel sopralluogo d’una topografia sconvolta negli anni, a distanza da accadimenti che non si sono probabilmente mai verificati nella più banale e prosaica delle concretezze. Si dice pure che la storia non si possa scrivere al congiuntivo, con i “ma” e con i “se”, altrimenti si tradurrebbe, quando va bene, e a seconda della prospettiva, in una sorta di “dis/u-topia”; – e che senso direzionale farle prendere, il “δυς-” (dys, “cattivo”) o l’altro, “εὖ- “(“buono”)? Verso il racconto di Yevgenij Zamyatin, “Noi” (Мы, 1924), o piuttosto il sogno romanzato di Edward Bellamy, “Looking Backward: 2000-1887” (1888)? Semmai, è forse possibile misurare, o adeguare, un qualche grado di contestualizzazione di certa narrazione, laddove risulta oltremodo difficile, quanto meno, assicurarsi una “storicizzabilità” del medesimo contesto?
Quel che resta, alla fin fine, sembra ridursi soltanto ad accoglienza, od ospitalità in situ, nei pressi della “stagliata di Salìce”, nella “tenuta agricola”, appartenente alla locale dinastia secolare Milano-Franco d’Aragona (“Utroque coruscat”)- oggi Riario Sforza, che adesso occupa la dimensione immaginaria di quella che, in epoca risorgimentale, sarebbe dovuta essere sede d’una “città ideale” dallo schema ippodameo, alla stessa stregua delle rinascimentali in effetti realizzate (tipo Pienza, Palmanova, Sabbioneta), perché, quando si prende dimestichezza con delle iperboli, la tentazione immediata e impulsiva è di renderle sufficientemente sproporzionate all’ambiente: e parliamo d’un paesino a ridosso delle Serre sud occidentali, a metà strada tra Jonio e Tirreno, e tuttora neanche ben collegato se non con i viciniori (Feroleto, Maropati), il quale nel nome (Galatro, da χαλάδρα o γάλαδρος, γάλατρον) rievocherebbe un’ellenica definizione della fenditura (gola persino) provocata nel terreno dall’azione tumultuosa, quanto sporadica, e stagionale, di almeno uno dei suoi fiumi, il Metramo, da μήτριος, “moderato”, nonostante, ironia della sorte, il suo
regime di tipo torrentizio procuri notevole rischio alluvionale.
Se non ci fossero stati i monaci basiliani provenienti dal cenobio della brettia Ταυρανία (Tauriana, che sulla riva sud del fiume Metauros, aveva segnato il confine, sul versante tirrenico nord-occidentale, del territorio di Rhegion, oltre il quale iniziava quello di Locri Epizefiri), sconvolto dalle scorrerie saracene della metà del X sec., a fondare il monastero dedicato a Sant’Elia (da Enna, ὁ Νίος, il giovane) non sarebbero neppure state scoperte le fonti termali, di acque solfuree-salso-iodiche, nella valle del Fermano, in quella stretta gola (ed ecco γάλατρον) del Monte Livia, a circa 2 km dall’attuale localizzazione di un centro abitato da poco più di duemila anime.
La necessità di un “trasloco” veniva giustificata dal non avere Galatro “né orizzonte, né sole, né libera ventilazione” e d’essere soggetto ai frequenti allagamenti nei quartieri Giudecca e San Nicola, a causa dell’erosione provocata dai suoi torrenti (anche il Potamo, affluente del Metramo) che ivi confluiscono, e a cui veniva attribuito il progressivo calo demografico pesantemente subìto a partire dal devastante terremoto del 1783, quello che aveva completamente raso al suolo Scilla, Palmi, Terranova Sappo Minulio, Polìstena. «Avevo veduto Reggio, Nicotera, Tropea… – scrisse Déodat de Dolomieu – ma quando di sopra un’eminenza vidi Polistena, quando contemplai i mucchi di pietra che non han più alcuna forma, né possono dare un’idea di ciò che era il luogo… provai un sentimento di terrore, di pietà, di ribrezzo…».
Da questa posizione così isolata rispetto agli altri centri urbani, e ancor più dal resto del mondo, come avrebbe potuto palpitare in un solo anelito con quei patrioti magiari che a tanta distanza avrebbero dovuto finanziare l’iniziativa di omaggiare l’eroe di Quarto e Calatafimi, che peraltro esplicitamente aveva già manifestato l’intenzione di continuare a soggiornare nell’isola sarda?
In un clima di mesta indifferenza, dal municipio di Galatro partì comunque una raffica di cittadinanze onorarie che avrebbero dovuto entusiasmare gli animi garibaldini di Sándor Gál, Árpád Chanel, Alexandre Dumas, Giovanni Basso, Francesco Giordano, e degli stessi rampolli dell’esule di Caprera, Menotti e Ricciotti.
Le porte della cittadina ancora da fondare avrebbero dovuto spalancarsi su di un fiorente sviluppo economico, collegando, senza però precisare come, il commercio del Golfo di Squillace con Monteleone e poi, – e qui lo sproloquio d’una retorica prosopopea suona quasi insopportabile alla comune intelligenza, – nel rievocare una ”grande linea bizantina”, condurre a Brindisi le convenienti rotte orientali per l’Albania, Filippopoli (Пловдив, in Bulgaria), Adrianopoli (attuale Edirne nella Turchia occidentale, e continentale europea), Salonicco (Grecia), la Valacchia (sud della Romania), la Russia… oppure, variando di novanta gradi la bussola, quelle altrettanto congeniali (?) verso Al-munastîr, all’estremità meridionale del Golfo di Hammamet!
Forse aveva ragione Corrado Alvaro, quando, in “Itinerario italiano” (1954) annotava quanto facilmente: “il calabrese s’innamora come pochi delle grandi idee e delle idee universali”, quand’anche fossero mere megalomanie, salvo poi razionalmente retrocedere, con la coda fra le gambe, di fronte alle impellenti e quotidiane problematiche esistenziali.
Acutamente lo stesso Alvaro, nel 1931 (“Calabria”), aveva pure valutato la condizione storica di quel periodo, osservando come “soltanto la conquista garibaldina del Reame segnò un mutamento profondo: i patrioti si sostituirono ai borbonizzanti, alcuni del popolo salirono a fortuna profittando della confusione avvenuta nel riordinamento del catasto, la struttura delle Calabrie era sulla via delle grandi trasformazioni: entrava in iscena la piccola borghesia germogliata ai piedi dei signori feudali”. Cosicché Luigi Zuppetta, mazziniano della prima ora, garibaldino e massone, nonché giurista, si sentiva in dovere di augurarsi: “Faccia Idddio che possa essere segnalato per onestà chi è pur troppo segnalato per attività”. Intendendola, a dir poco, fraudolenta, visto che l’iniziativa galatrese avrebbe previsto degli espropri indiscriminati tra i proprietari legati alla vecchia classe dirigente.
E pensare che il battitore libero nella raccolta di offerte a fondo perduto, per accattivarsi le simpatie dei Figli della Vedova, si firmava aggiungendo vistosamente sotto il nome i tre puntini “regolamentari”, inframmezzati tra due sbarrette verticali devianti verso sinistra!
Ed ecco perché questa non è più una storia che ci parla soltanto del passato, ma riguarda anche l’oggi, per tutte le ingerenze, le speculazioni e i profitti che possono derivare da innocenti idealismi improntati ai migliori principi e apparentemente orientati ad altrettanto buoni fini, ma suscettibili tuttavia di inopportune e interessate manipolazioni.
Lo schema ippodameo di questa Νεάπολις risorgimentale avrebbe predisposto strade a forma di “croce sabauda”, dividendo quartieri dal nome evocativo, di Marsala, per il mercato dei vini e degli oli, Magenta per quello degli agrumi, Solferino per le granaglie, Milazzo per il vaccino, collocando al centro una piazza dell’Unità ed erigendo “sul punto d’intersezione della Croce romana la statua equestre dell’uomo della provvidenza”.
E che dire di quest’«uomo attempato e lascivo», secondo una descrizione, che risente di certo moralismo nordico e abituale pruderie vittoriana, affibbiatagli dalla studiosa irlandese Lucy Riall, sia in “l’invenzione di un eroe” (2007), che nella “costruzione del mito” (storie d’amore, di libertà e d’avventure, 2002)?
Non ci fu, tuttavia, località sperduta dell’Aspromonte, come di altre, a volte solo presunte, tappe di quel suo andare incontro a gloria imperitura, ove non abbia soggiornato, calpestato il suolo, lasciato una goccia di sangue, di sudore, d’altro liquido fisiologico, – specie di quello che non si può deporre se non in patriottica compagnia…
“Pover’uomo”, comunque, altro che “uomo della provvidenza”, sballottato tra l’idealismo mazziniano e il pragmatismo cavouriano, tra la lealtà a un monarca mediocre e di assoluta periferia, – che avrebbe perfino conservato l’enumerazione dinastica piemontese di “secondo”, – ma dagli eventi internazionali posto a cuscinetto tra gli interessi d’oltralpe, francesi a occidente e austriaci a oriente, e le varie sollecitazioni libertarie di popoli oppressi, quale quello magiaro, da un Impero ancora saldo, e altri invece venduti, come gli stessi compatrioti nizzardi, a un altro sovrano presuntuoso, ormai prossimo alla disfatta di Sedan.
“Il giorno in cui voi sarete in Ungheria – scriveva Mazzini a Garibaldi – e avrete trascinato con voi il fiore dei nostri militi, Luigi Napoleone occuperà Gaeta e Napoli, per cercare di collocarvi un Murat o un Napoleone Bonaparte, il cugino. È il disegno; il disegno del quale probabilmente è complice Cavour”.
Diversa evidentemente sarebbe potuta essere la considerazione strategica se l’attacco fosse stato diretto, senza intermediazioni, e immediato, nei confronti dell’Austria. Il senso politico d’una spedizione nei Balcani (che coinvolgesse Grecia, Dalmazia, Croazia, Serbia) sarebbe allora stato quello d’attaccare l’Impero austro-ungarico da più fronti, alleggerendo la pressione sul Veneto. Ma il timore, un po’ tattico un po’ logistico, di Mazzini di sguarnire il meridione d’Italia, prestando il fianco a una specie di “murattismo” di rinculo, era paradossalmente avvalorato anche da quel parere negativo del leader della rivoluzione ungherese del ’48, Lajos Kossuth, legato da un lato alla Francia e dall’altro notoriamente compromesso con Cavour.
Questa Hungarian Connection si basava sullo sfruttamento dell’immagine ormai mitica di Garibaldi in grado d’abbracciare tutta quella parte del continente ancora soggetta alla dominazione austriaca e desiderosa d’affrancarsene. Forse non era neppure “una” risposta, né quella giusta, all’incalzante domanda di indipendenza (e quanto veramente nazionalistica?), bensì l’entusiastico e confuso sbandieramento d’un tipo di slogan che oggi sarebbe stato convertito in un grido unanime: “più Europa e meno cacao” (sic!).
In alternativa alle aspirazioni espansionistiche di Napoleone III, salvaguardate da Kossuth e Cavour, il generale Sándor Gál contrattaccava a suo modo, contattando l’eroe dei due mondi, e firmandosi speranzosamente “l’eletto a capo della Nazione dei Siculi in Transilvania”, – ma intendeva le popolazioni turche “magiarizzate” (székelyek, in ungherese, secui in rumeno). Ma, cosa ancor più avventata, dando incarico di commissionare le armi a un certo Marino Caracciolo, fedelissimo agente borbonico, per l’occasione addirittura camuffatosi da repubblicano.
Un altro “maniglione”, senza fornire uno straccio di prova, si vantava d’aver preso parte a varie imprese patriottiche per poi confessare: “Al Plebiscito feci molti delitti, come Presidente di Comitato… perché da l’urna i no venissero fuori in sì cambiati”!
La difesa del gran nizzardo, ed esule sardo: “Voi dovete pensare ch’io non posso essere responsabile di quanto succede a Napoli”, non poteva essere meno disarmante.
Con questo “seguito” equivoco, non ebbe mai intitolata una città col suo nome, neppure una dal suono cacofonico di Garibaldipoli, e si dovette accontentare di tante piazze, strade, corsi, statue equestri e non; anche se certamente gli avrà pure fatto piacere che un piccolo paese meridionale si riqualificasse come Nizza di Sicilia.
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