Da Domenica (Il Sole 24 Ore)Â del 13 dicembre
C’è un punto del libro di Vito Teti, proprio nel cuore del capitolo dedicato al tema dell’emigrare, in cui compare una frase che l’autore ha strappato dalla bocca di un’anziana donna, emigrata in Canada: «La cosa che più desidero è tornare in paese. Ma non torno più. Ho tanta nostalgia. Vivo con la nostalgia del paese. Ma so che se tornassi perderei anche la nostalgia». Come tutto ciò che appartiene al lessico dei semplici, il ragionamento fissa una regola a cui forse avrebbe obbedito anche il grande Ulisse: è preferibile non tornare più nel luogo da cui si è partiti, meglio continuare a sperare in un nostos che ha sue liturgie, i suoi ripensamenti, le sue crisi. “Perdere la nostalgia” è un assunto da utilizzare a chiave di lettura di Terra inquieta. Teti disegna un Meridione di peregrinazioni senza sosta (nel titolo, ma anche nel procedere dello stile tra il reportage di memoria e l’antropologia), che contraddice il paradigma leviano dell’immobilità e traccia un orizzonte dove l’ossessione per il distacco produce un’idea di incompletezza e, nel contempo, implica il rischio dell’avvenura. Ogni cosa in queste pagine assume un che di movimentato e di sospinto: dalla Calabria ci si allontana per ragioni tragiche e festose, per scongiurare un destino minore ma anche per obbedire al desiderio di conoscere il mondo, si abbandonano case e paesi con la morte nel cuore e l’utopia nella mente, anche i santi, accompagnati da comitive mistiche e chiassose lungo le vie che conducono ai santuari, sono presenze perennemente votate alla volubilità della corsa, al fascino strabordante dei miti pellegrini. Perfino Cristo, in questa terra sospesa fra due mari, è una figura che stravolge il tema dell’assenza e, anziché farsi immagine ieratica e statuaria come solo poteva esserlo chi tanti anni prima “si era fermato a Eboli”, visita luoghi, bussa alle porte, attraversa dirupi e contrade per regalare l’annuncio di una libertà. Nella fenomenologia di un’identità impaziente e fuggitiva, il lavoro di Teti tocca un punto innovativo rispetto alle traiettorie che sono rimaste espressione di una certa, ormai obsoleta lettura meridionalista, a partire da Sud e magia di Ernesto De Martino: un classico del meridionalismo, che ora torna in libreria per celebrare i cinquant’anni dalla morte del suo autore e che, pur nella distanza ormai considerevole, mantiene intatta la sua lezione civile, la sua lucida, testimoniale inchiesta di verità.
Rileggendo proprio il libro di De Martino, anche alla luce degli apparati inediti che lo corredano, si prende coscienza che il passare del tempo ha mutato non solo il lessico con cui narrare il Sud. Nel posizionare la Calabria dentro le rotte dell’erranza mediterranea, nell’attribuire a queste traiettorie i caratteri di una condizione ebraica (mirabili le pagine in cui Corrado Alvaro viene accostato a Joseph Roth),Teti segna il momento di maggiore distacco dalla tradizione antropologica attraverso cui è stato letto fino a pochi anni fa (e purtroppo in alcuni casi lo è ancora oggi) l’entroterra della dorsale appenninica. Sicché una nuova prospettiva sembra aleggiare sulle pagine del suo libro e sulle foto che lo accompagnano: la febbre del dinamismo ha preso il sopravvento sulla stasi del rimanere e il rito del viaggiare spinge verso un’idea di altrove che non rappresenta solo il crepuscolo di una civiltà, ma il prologo a una sorta di utopia. Ciò indubbiamente alimenta il disincanto per ciò che si è perduto, eppure interpreta l’allontanarsi dalle radici quale principale indizio di una modernità latente, attesa nelle sue più stranianti manifestazioni, prima fra tutte quella festa del ritorno che si candida a evento cardine di questa mancanza di stabilità. È vero che terremoti e catastrofi naturali sono le epifanie di una Calabria ballerina, è vero anche che esiste un’osmosi tra separazione dalla terra e addio ai defunti, ma nessuno dubita che, per maturare una profonda coscienza del nuovo, bisognerebbe diffidare della nostalgia, tradire se stessi e i luoghi di appartenenza, morire ai paesi (prendo in prestito un’espressione di Alfonso Gatto) e rivivere nella speranza di un altrove di cui rimane parvenza nel cibo, nel dialetto, nel senso di un procedere comunitario verso un’ipotetica terra promessa. È un bel modo per spalancare le porte del nostro Mezzogiorno a una dimensione che interpreta la Storia non più in termini di subalternità ma di riscatto, che segna il superamento di una visione in cui cessa la sovrapposizione tra magico e religioso, tra mondo naif e non-storia, come invece era stato fissato proprio dall’inchiesta di Ernesto De Martino.
di Giuseppe Lupo
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