Prof. Carlo Magnani, Lei è autore del libro Finché ci sono fake news c’è speranza. Libertà d’espressione, democrazia, nuovi media edito da Rubbettino. Le fake news sono al centro del dibattito politico e culturale, additate come il male del nostro tempo: è giustificata tale enfasi?
Il titolo, dolosamente provocatorio del volume, è un po’ una reazione di legittima difesa ad un dominante conformismo del dibattito pubblico sulla questione delle fake news.
In primo luogo, c’è una questione definitoria, ontologica direi. Che cosa sono le fake news? Notizie palesemente false o anche altro? Non a caso a questo termine se ne affiancano altri come disinformazione, malinformazione, che servono a precisare meglio il fenomeno. Già qualcosa che non è facile da definire mette qualche sospetto. Comunque, diamo per scontato che esistano veramente. Si tratta di una cosa davvero nuova?
La diffusione di teorie improbabili e poco scientifiche, quando non di veri e propri falsi storici, è sempre avvenuta e probabilmente non cesserà in virtù delle tante predicazioni contro la disinformazione. Da questo punto di vista non c’è niente di nuovo sotto il sole. La novità maggiore del contesto è costituita dalla quantità di informazioni e registrazioni che circolano nella sfera pubblica: in pochi decenni abbiamo già prodotto più documenti di quanti l’umanità non ne avesse forgiati nella precedente secolare storia universale. Ciò, unitamente alla capillarità delle fonti di informazione – ogni individuo iscritto ad una piattaforma social funge praticamente da agenzia di stampa – amplifica il fenomeno. Ma si tratta davvero di una emergenza tale da mobilitare le istituzioni e da invocare regole più restrittive per la libertà di espressione? Secondo me, no. In genere alle fake news vengono rivolte due grandi critiche. La prima, è quella di alterare il dibattito politico democratico; la seconda, è quella di corrompere e alienare la genuinità dell’animo umano. Mi sembrano entrambe poco fondate. Io provo a esaminarle dal punto di vista del diritto, che da solo però non basta. Serve un inquadramento anche culturale.
Le fake news minacciano realmente la libertà di espressione e la democrazia?
Come si diceva sopra molti pongono la questione democratica. Qui occorre premettere una cosa: la libertà di espressione ha due volti, uno è quello della libertà individuale e l’altro è quello del potere. Con l’informazione si possono fare entrambe le cose: contestare il potere maggioritario oppure consolidare il sistema dominante. La mia cruda visione è che oggi nel dibattito politico si denominano fake news le opinioni politiche, o a supporto di tesi politiche, che non piacciono alla “mia” parte. L’informazione è al centro, da sempre, delle dinamiche di potere. Non a caso la questione fake news esplode nel 2016 in concomitanza con tre eventi politici (Brexit, elezioni Trump, referendum costituzionale italiano) i cui esiti sorprendono l’establishment e i media tradizionali (grandi networks televisivi e grande stampa) che vedono sconfitte le loro opzioni preferenziali. A quel punto scatta la caccia alle fake news come colpevoli del misfatto. Come se la propaganda politica fosse un campo da riservare a comunicatori “esperti” bandendo la figura del quisque de populo.
Ma democrazia e libertà di espressione stanno insieme, senza l’una cade anche l’altra. Tanto è vero che dopo avere indicato nelle fake news sulla rete il principale bersaglio se ne aggiunge presto un altro: il suffragio universale. Inizia a circolare il pensiero: il suffragio universale è un lusso che non possiamo più permetterci! A sostenerlo però non sono i reazionari, come tra Ottocento e Novecento, ma i nuovi progressisti folgorati sulla strada della “competenza”. A minacciare la libertà e la democrazia non sono tanto i singoli più o meno sprovveduti che diffondono storie poco credibili sulla rete. Spesso tali circuiti, bolle o “eco chamber”, sono abbastanza chiusi e non perforano ambienti diversi. La minaccia maggiore viene dai proprietari dei mezzi, cioè le grandi piattaforme social (facebbok, twitter, Google), che possono decidere quasi in autonomia se escludere o meno qualche voce dal dibattito pubblico. Ancora una volta ricompare l’intreccio tra libertà e potere.
Esiste un legame necessario tra populismo e Internet?
Se le fake news sono il nemico principe della informazione, nella politica a tale ruolo è assurto il populismo. Un altro termine complesso trasformato in comodo nemico. Anche qui l’impressione è che populista corrisponda a ciò che non è compatibile con la mia ideologia politica. Siamo nell’epoca del moralismo imperante del politicamente corretto quindi il mio avversario deve essere per forza delegittimato radicalmente. Non è perciò affatto raro imbattersi in chi, contestando il populismo politico nazionale o estero, connette necessariamente il successo di talune forze politiche alla disinformazione che corre su Internet. Qui c’è una forte travisamento della tecnica, come se dopo la scoperta della stampa si fosse sostenuto che era anti-cattolica e protestante per avere favorito la riforma luterana. È chiaro che i populisti usano Internet per la loro propaganda, anche perché i media tradizionali sono loro interdetti! Anche qui c’è una lotta per il potere, per l’egemonia: i ceti intellettuali dominanti legati all’economia mainstream godono dell’appoggio di stampa e tv, mentre i populisti-sovranisti critici del globalismo si rifugiano nello spazio libero dei social. Dove sarebbe lo scandalo? Il populismo, inoltre, non è solo uno stile dei contestatori ma può essere benissimo usato anche da chi governa. Anche chi ha il potere può prediligere la disintermediazione, il rapporto diretto con il popolo, la semplificazione dei messaggi. Tutte queste caratteristiche della comunicazione che vengono imputate ai populisti della rete sono in Italia merce diffusa dall’inizio della Seconda Repubblica: quando Internet non c’era o era agli albori.
È necessario, a Suo avviso, intervenire con provvedimenti e autorità che fissino una “nuova politica della verità”?
Un merito, il dibattito sulle fake news ce lo ha, quello di avere riportato al centro la nozione di verità. Il punto, però, è che dopo decenni di cultura postmoderna in cui la verità è stata abbandonata come il relitto di una infelice epoca metafisica e totalitaria, in favore del testo e del contesto, ebbene, giusto ora che nei saperi umanistici domina appunto l’ermeneutica, non si comprende perché l’unica sede che ha invece bisogno di un sano e laico relativismo, cioè la sfera pubblica, debba divenire il luogo di recupero della funzione di verità.
La democrazia è nemica di ogni verità ufficiale e lo è anche la nostra Costituzione, nel combinato degli artt. 1, 21 e 33, ove si assicura libertà di parola e di ricerca culturale. Eppoi, quale è la verità? Non tutti i campi del sapere sono simili. Prendiamo l’economia, oggi, con la crisi pandemica, in Europa circolano anche tra gli economisti mainstream opinioni che solo pochi anni fa erano considerate non solo eresie ma vere e proprie blasfemie antiscientifiche. E come si fa a stabilire la verità tutte le volte che si dibatte di valori ed etica? Il cognitivismo etico è di certo praticabile ed auspicabile, ma non lo è altrettanto prevedere una autorità che imponga certi valori a tutti i consociati, e soprattutto che controlli sulla base di quei valori le opinioni espresse.
Inoltre, non si sa bene perché ma il recupero della funzione di verità viene sempre associato alla comunicazione digitale: come se i vecchi media fossero esempi di specchiata virtù. In Germania e Francia sono state approvate leggi che consentono interventi repressivi delle autorità pubbliche verso le piattaforme online; in Italia l’Agcom svolge un monitoraggio sulla disinformazione online. L’Unione Europea ha parimenti istituito un Gruppo di Alto livello contro la disinformazione online. Anche nella pandemia gli interventi dell’Agcom hanno concentrato l’attenzione in modo speciale sulla comunicazione online. Negli altri media va tutto bene? Non c’è troppa disparità di trattamento? C’è forse un pregiudizio culturale?
Quale approccio richiede dunque tale problema?
Al di là del conflitto squisitamente politico che pure c’è, anche quando ci si armi delle migliori intenzioni verso l’informazione credo che serva in primo luogo una chiarificazione sul ruolo della tecnica. Domina un atteggiamento di critica moralistica del web e dei social. Anche l’intelligenza artificiale gode di una visione fosca. È forte il timore che Internet, nel senso più lato del termine, costituisca un fattore di alienazione e di corruzione della nostra natura umana che invece sarebbe benigna. Per cui il cittadino, tra fake news, propaganda, informazione a tappeto, relazioni social, è percepito in eterno pericolo: ragione per cui non vota come dovrebbe, mandando così a pallino anche la democrazia. Questo dell’elettore-cittadino innocente e puro è un mito che non può reggere. Primo perché noi tutti siamo sia vittime che autori della comunicazione social. Poi perché le fasce meno acculturate della popolazione seguitano ad affidarsi ai media tradizionali, tv e stampa in primo luogo. Infine perché in verità la tecnica è molto più umana e simile a noi di quanto immaginiamo. Per questo serve un approccio culturale e antropologico, la rete non è solo il regno delle informazioni ma è un vero e proprio campo di azione, cioè di relazione. Occorrerà quindi abituarsi a convivere con la menzogna e con il pressapochismo. Non è ciò che facciamo ogni giorno nella vita definita reale? Da un lato accusiamo la rete di essere un posto finto e virtuale, ma quando assume i caratteri dell’umanità ci ritiriamo inorriditi e rilanciamo con slanci moralistici. Così resteremo sempre fermi alla lagna e alle impossibili istanze di proibizione.
Lei invoca la riscoperta della democrazia come procedura minima a garanzia della autonomia di individui liberi e uguali, luogo di raccolta delle opinioni e non della loro paternalistica formazione: come è possibile superare il pessimismo democratico che aleggia nella nostra società nutrendosi della disinformazione?
Il pessimismo informativo, e antropologico come abbiamo visto, trascinano a sé anche il pessimismo democratico. Si dice: vincono i peggiori, i cittadini non sono informati, i social fanno propaganda, poi ci sono i movimenti digitali populisti guidati da oscure pratiche… Insomma, come si diceva sopra, il suffragio universale non gode di buona stampa. Anche qui, c’è un riflesso politico ideologico: siccome vincono quelli che non mi piacciono allora tocca cambiare le regole del gioco. Ma anche se si va più a fondo, cioè se si ascoltano le ragioni di autorevole critica teorica, si può avere da eccepire. L’esplosione dei movimenti populisti ha riportato in auge come reazione visioni elitarie della democrazia. Si è parlato di epistocrazia, cioè del governo dei sapienti, come correttivo per i sistemi democratici occidentali. Visto che l’elettore medio non conosce abbastanza le cose della politica, il principio della eguaglianza dovrebbe ritirarsi e trovare deroghe nel premio dei competenti. Con il ricorso alla modellistica di Aristotele si può dire che la democrazia va corretta con l’aristocrazia. Ora, è chiaro che elettori informati e istruiti sono meglio di elettori poco acculturati. Ma l’essenza ultima della democrazia non è quella di scegliere i migliori e non è nemmeno quella di fare vincere la verità. In democrazia servono poche regole chiare che consentano a tutti di decidere e di distinguersi in maggioranza e minoranza. La democrazia è autonomia e non pedagogia del popolo. Il rischio è che vincano i peggiori, ma un rischio maggiore sarebbe quello di escludere qualcuno a priori. Siamo sempre al solito punto: quis iudicabit? Chi decide chi è migliore dell’altro?
Certo, si comprendono anche le ragioni di chi, senza elitarismo ma con spirito democratico, insiste perché vi sia una sfera pubblica matura e plurale che funzioni da presupposto della democrazia. Si tratta di una preoccupazione giusta, ma ancora una volta ci chiediamo: prima di Internet e dei populisti esisteva davvero una sfera pubblica così virtuosa? E chi oggi rappresenta una minaccia per la democrazia, i gruppi minoritari che usano male i social, o i grandi soggetti economici proprietari delle piattaforme che possono orientare il mercato e la politica degli stati? La democrazia non va messa sotto tutela così come gli individui e le loro opinioni, non ci sono ragioni per introdurre regole restrittive né per il dibattito e né per la dialettica democratica.
Insomma, le sfide sono aperte sono tante, ma nel mio lavoro voglio affermare che non si affrontano dismettendo le categorie teoriche che sono alla base del costituzionalismo democratico e sociale.
Carlo Magnani, laureato in giurisprudenza e in filosofia, è ricercatore di diritto pubblico e docente di Diritto dell’informazione presso il Dipartimento di Scienze della comunicazione dell’Università ‘Carlo Bo’ di Urbino. Ha pubblicato alcune monografie: La procreazione artificiale come libertà costituzionale (Quattroventi, Urbino, 1999), Dall’epoca dello Stato all’epoca della Costituzione. Teorie e dottrine (Quattroventi, Urbino, 2002), e Pluralismo, informazione e radiotelevisione (Editoriale Scientifica, Napoli, 2014). Ha altresì curato il volume Beni pubblici e servizi pubblici in tempi di sussidiarietà (Giappichelli, Torino, 2007). È inoltre autore di Filosofia del tennis. Profilo ideologico del tennis moderno (Mimesis, Milano-Udine, 2011), nonché de L’Anima dei borghi. Paesologia delle Alte Marche (Illavoroeditoriale, Ancona, 2020).
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