Feltri ha entusiasticamente approvato la Storia di Forza Italia 1994-2018 (374 pagine, ed. Rubbettino, 24 €) di Fabrizio Cicchitto, pur non avendola, per sua stessa ammissione, nemmeno letta ma solo annusata. Secondo il Bergamasco, l’autore si è attirato sopra il capo furie celesti per non essere stato un ubbidiente servo sciocco e per aver dato al fondatore e leader FI, Berlusconi, i consigli giusti che questi si è ben guardato dall’adottare. E la Storia finisce quasi adombrando un pentimento nell’ultimo Cavaliere, divenuto, fuori tempo massimo (lui che aveva dato del Kapò all’eurosocialista Schultz) europeista, centrista, allarmato degli squilibri insomma alfaniano, dando così ragione agli ultimi scissionisti forzisti che rifiutarono l’ira funesta estremista del capo ridotto ai servizi sociali dalla decadenza parlamentare giudiziaria ex legge Severino.In realtà Cicchitto, uscito dal Parlamento dopo esserci entrato nel 1976, non rinuncia alla politica politicata anche da editorialista ed in primis regola i propri conti con i Tremonti, Brunetta, Ghedini, Santachè e Verdini, con il quale venne quasi alle mani. Di converso escono, dalle pagine, edulcorate le figure dei Napolitano, dei D’Alema e dei Casini comeingigantite quelle dei Cesa. Una storia FI non può non essere una zuffa tra berluscones.
Cicchitto è un dottor Jekyll dalla formazione politica lombardiana (gli ingraiani del Partito socialista) della prima repubblica, forgiata ad orecchiare i padri della patria mentre prendevano il caffè in piazza del popolo al bar Canova, di proprietà dello zio; ma è anche un signor Hyde, l’unico ad aver tentato con concreti atti legislativi la vendetta della politica contro la magistratura, con lo stesso odio, fiele e forza d’attacco mostrati in retorica da Ferrara. Per giungere alla pacificazione ed alle larghe intese bipartisan capaci di far uscire il Paese dalle paludi dell’odio prima verso Craxi e Berlusconi, Cicchitto, se fa dell’avversario un ritratto tanto belluino da giustificarne l’abbattimento, poi cerca con esso con tutto lo sforzo possibile l’appeasement, vitale per una conclusione non disastrosa del proprio leader. La seconda parte del libro racconta di questa macerazione finita male, da extraparlamentari, per lui e per Berlusconi. La prima invece racconta pedissequa le tesi autoraccontatesi da FI su se stessa; che non fa mai male ripetere, visto la poca diffusione di cui hanno goduto.
La Storia è la vicenda degli eredi di Berlusconi, della loro ricerca e damnatio, col miraggio di comandare i conservatori; è il racconto dei coordinatori, gonfiati e svaporati uno dopo l’altro. I più importanti delfini, al di là della durata, sono stati Dell’Utri, Scajola, Tremonti, Alfano, Toti, Tajani; ma a tratti, soprattutto per colorature giornalistiche lo sono apparsi anche Urbani, Sgarbi, Ferrara; né sono mancate le donne, Brambilla e Barbara B. Il missino Mennitti, il generale Caligaris, Previti si provarono a fare i segretari di partito. Forse l’unico che ci riuscì fu Scajola, l’ex sindaco Dc di Imperia, che in due anni con la sua squadra (parlamentari Dell’Elce, Frattini, Castaldi, Crimi, Bonaiuti,Valducci) creò un vero congresso nazionale ad Assago con 1.704 delegati eletti, ed un reticolo di 28 assessori, 118 consiglieri regionali e coordinatori territoriali, malgrado che il 40 % dei primi parlamentari non fosse stato rieletto e che FI fosse all’opposizione. Con buona pace del partito fantasma di Bobbio su La Stampa del ‘94.
Dentro FI invece i leader sono appassiti davanti al leader Aristos vittorioso nello sport e nel business innovativo dei media, l’uomo dotato di qualità straordinarie per capacita comunicative, per esibizionismo, per fascino travolgente, per straordinaria simpatia umana, il difensore della libertà economica, dell’anticomunismo, del garantismo, della sicurezza, della riduzione fiscale, ingordo molto più di Jobs di tutto (soldi,sesso, potere), l’unico capace, magari per un breve tempo, di sovrastare la Juve e la Rai e tutti i loro servili seguaci. Egli, così, si sovrappone al suo partito con tutto l’amore, deferenza e servilismo, a seconda dei casi, che ebbe da quadri ed elettori per i quali fu in 24 anni capo, padre, figlio scavezzacollo, zio dongiovanni.
Questo peso, la biografia del fondatore schiaccia la Storia esvapora l’oggetto stesso del libro. Poi c’è il peso della magistratura, ospite indesiderato. Si pensi, ed è solo antipasto, che due giorni dopo la presentazione alla stampa del nuovo partito viene arrestato il fratello del fondatore. L’epopea, FI, la vive prima di nascere, dalla ricerca, nel deserto post Mani Pulite, di un leader conservatore da parte di Urbani (con lui c’era anche Dotti) fino all’incontro presso il notaio Colistra di uno strano gruppo che deposita uno statuto che oggi si direbbe dei 5Stelle, tutto assemblearismo e democrazia diretta. Ci sono il Cavaliere, un generale, il liberale di antico conio, un dirigente Fininvest ed un giornalista monarchico che aveva lavorato con il socialista Lagorio, quello della posa dei missili a Comiso. Lo statuto non si applicò mai ed il tesseramento era fatto anche con coupon distribuiti su Sorrisi e Canzoni. Il salto del buio della prima prova elettorale poteva avere qualunque risultato. FI stravinse con dieci milioni e 123mila elettori; non pensò più a sé ma solo alle difese giudiziarie. Dell’Utri e squadra (Del Debbio, Codignoni, Spingardi, Gorla) avevano convertito d’emblée 26 dirigenti di Publitalia e 640 candidati in organizzazione di partito e gruppi parlamentari.
Caduto il primo erede designato, Scajola, arrivò il duo coordinatore di Bondi e Cicchitto nel 2003 (dopo la brevissima comparsata di Miccichè) che durò proprio per la misura di sé dimostrata dagli ex comunista ed ex socialista. Nell’ultimo lustro di governo la FI cicchittiana fu imbattibile, anche grazie alla ammessa schiavizzazione di Baldelli, proprio sul terreno a lei più ostico, quello dei trappoloni parlamentari combinati con esternazioni Tv, di procura e di piazza. Lo fu molto meno sul piano dei contenuti legislativi che avrebbero dovuto essere a prova di bomba grazie all’ascesa degli avvocati, eredi di Previti, prima Pecorella, sorta di Pisapia di destra, ma soprattutto di Ghedini. Nel Parlamento ad personam, quella dell’ordine che lavora solo contro uno e della legge fatta in reazione a suo favore, sparirono sparire politica e partitica e si sfogarono le opinioni, soprattutto quelle FI, partito anarchico e monarchico, dove esse erano le più libere in assoluto.
I pensatoi, c’erano sempre stati, sorta di caminetti del Cavaliere, presidiati dal segretario particolare Querci, dal sondaggista Pilo, dal gerarchico Previti, dai dubbiosi Letta e Confalonieri. All’inizio Martino, Biondi, l’entusiasta Urbani, Marzano avevano evocato il liberalismo di massa. Poi si erano via via allargati ai Dc (Pera, Pisanu, La Loggia, Leccisi), ai ciellini (Formigoni, Mauro, Lupi), ai socialisti (Tremonti, Sacconi, Brunetta, Frattini, Cicchitto, Boniver ed i fratelli Craxi che ritrovavano Ferrara e don Gianni Baget Bozzo); poi si aggiunsero Colletti e Melograni. Con Bondi il dibattito sviluppatosi dal ’99, si trasformò romanticamente, tra terremoti e tempeste fuori della porta, nell’annuale convegno culturale di Gubbio e del Mattinale di Bonaiuti e squadra (Lainati, Pamparana, Jannuzzi, Socci, Mottola e D’Alessandro). Dieci anni dopo, l’improvvisata del predellino di Berlusconi, che in nome del bipartitismo, si annesse Alleanza Nazionale con il neonato PdL, doveva molto ai dibattiti delle mille idee contrapposte di un unico campo di destra allargata dialogante, reso coeso dall’odio e dal disprezzo esterni. Quest’onda proseguì fino all’ultima sbandata culturale de Giornale Off e di Sylos Labini al vertice della cultura FI; finchè gli tsunami delle bolle finanziarie, della scissione finiana e del colpo di statomontiano del 2011 non allagarono tutto sotto l’assedio mediatico giudiziario piazzarolo, continuo ed ininterrotto.
La cacciata da governo e da Parlamento per Berlusconi, malgrado le accuse sessuali sempre più ficcanti (che ad oggi continuano ad avere strascichi infiniti), avevano avuto compenso nell’autodistruzione di Monti, di Fini, di Tremonti, della Lega bossiana e di tutta una serie di soggetti che credevano di saperla lunga. La vendetta è un piatto che si mangia freddo ed il non più Cavaliere la sorbì con l’estremismo totale della Santachè e di Verdini, tirati fuori dal frizer. Uno storico staff (La Russa, Cicchitto, Gasparri, Quagliariello, Corsaro, Lupi, Bonaiuti, Matteoli, Alemano, Sacconi, Vegas, Casero) rischiava ogni giorno di passare da traditore al giudizio di Santachè, Fitto, Capezzone, Verdini, Mantovani, Bondi, Biancofiore, Romani, Brunetta, Gelmini, Carfagna, Maria Bernini. Passò da tale anche Cicchitto che fu tra le colombe ex forziste che sostennero con mezza gamba destra i premier Pd Letta, Renzi e Gentiloni. Da capogruppo berlusconiano del grande partito di destra, finì nell’ultima scissione del Nuovocentrodestra di Alfano e degli ex ministri forzisti e si ricandidò nel ’18 con la lista Civica Popolare, listone di casiniani ed altri centristi a sostegno (orribile dictu) del centrosinistra. (L’estemporanea formazione non lo ha eletto confermando purtroppo le ciniche carriere del vecchio Casini e della giovane Lorenzin). Il ritorno a FI sembrò l’approdo ad una AN ancora più di destra. I nuovi capi erano Fiori, l’ex rottamatore Furlan, Toti, Cattaneo l’antiminetti, la Rossi più maggiorata della Minetti. I media berlusconiani, che con Fede si erano limitati ad un angolo di adorazione, ringhiavano a destra con Del Debbio e Porro. In compenso Verdini era anche la liason con il neosegretario e premier Renzi che da par suo stava destrizzando il PD. Il patto del Nazareno dopo la fallita bicamerale, dopo la devolution apriva alla terza possibilità di cambio costituzionale.
Cicchitto, si capisce, avrebbe voluto la riforma del sistema. Ripete ossessivamente la formula socialisti riformisti che negli anni ’80 voleva dire craxiani, pur essendo un errore anche allora (anche il Pci era filocapitalista e nessuno era rivoluzionario né massimalista né riformista) intendendo coloro che vogliono cambiare la Costituzione, che è fonte di tutta l’instabilità italiana. Se fu pidduista per questo, non ebbe torto. Sosteneva presidenzialismo, elezione diretta dei vertici, autonomie, fine delle guarentigie dei togati, sistema elettorale maggioritario, in una parola la governabilità di Craxi, l’oggetto dei tre tentativi di D’Alema, Berlusconi e Renzi. Sapeva che sarebbero stati minati come pericolo per la democrazia con le parole usate un tempo da Berlinguer, Tatò e da ultimo da Rodotà, che assimilavano a golpismo la forza istituzionale dei paesi occidentali. Avrebbe voluto che il meccanismo di Verdini andasse in porto. Eppure nel ricordare le trappole quirinalizie, tutte fatte, per dividere a destra, in cui caddero il povero Maccanico, Martelli e Scotti, Conso e Biondi, Buttiglione e Bossi, Dini, Mancuso e Cossiga, Mastella, Follini, Fini ed addirittura i Monti, gli resta nella penna l’inchiostro per ammettere che nello stesso tranello c’è finito anche lui. Ed anche Berlusconi che quando virerà al centro con il colpo di maestro di porre Tajani al vertice dell’europarlamemto malgrado i minimi di gradimento dell’elettorato FI, sbanderà del tutto. FI era stata portata troppo a destra per tornare indietro, soprattutto mentre le stimmate del vincitore impallidivano nell’età, nel business, nello sport, nei processi. Gli eredi più solidi di Berlusconi sono apparsi un lascito per leader di altri campi e partiti, come Fini o Renzi, secondo l’idea suggestiva di ricreare una grande Dc (in versione andreottiana o fanfaniana) interclassista, palude della composizione dei conflitti. Alla fine secondo l’intuizione di Toti sta prevalendo l’Edipo Salvini, non il figlio fedele ma quello che deve uccidere il padre per prenderne il regno e snaturarlo facendo della Baviera, una Prussia.
La Storia non dovrebbe però finire nella cucina politica ma in un trionfo. Chi era veramente contrario alle tesi della discesa in campo – primato dell’impresa, dei rappresentanti civili del popolo, della libertà e dei diritti dell’individuo – oggi politicamente non esiste; resiste nelle burocrazie sempre più vecchie che si chiedono se valeva la pena scassare tutto pur di eliminare il nemico politico. Sarà incredibile ma destra, 5Stelle, Pd trasudano le buone ragioni di FI, idee ormai di tutti. E FI, portata in porto la sua mission, rischia grosso.
P.S.
Quando Cicchitto era al top del potere, venne in una ex sezione socialista romana dove reducisti craxiani continuavano ad esporre l’insegna con il garofano (malgrado venisse continuamente vandalizzata). Era venuto con la Lorenzin per arruolare in FI. Negli interventi, che erano stati tutti precedentemente catechizzati, condizionai l’adesione alla riconoscibilità postcraxiana in FI. Per tutta risposta mi diede del maleducato. La riconoscibilità, se non l’identità, è il quid che ha finora salvato qualche nome eterno del Parlamento.
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