Il gioco del calcio funge da motore metaforico negli ambiti più vari e molteplici. Ormai in molte circostanze della nostra vita siamo giudicati in “fuorigioco”, spesso siamo colti in “contropiede”, subiamo un “calcio di rigore” o ci viene sbandierato un “cartellino giallo” se non addirittura “rosso” – senza contare le occasioni in cui, non sapendo bene cosa dire, in un “primo tempo” “passiamo la palla” potendo contare su di un “secondo tempo”. Più recentemente, un decreto legge – e qui ci siamo – veniva considerato una “palla buttata in corner”, volendo dire che il guaio risolto non era affatto ma soltanto rimandato – come di quel goal che è nell’aria e, prima o poi, deve arrivare e arriverà. Storia alla mano, Ettore Castagna seleziona dunque la bandierina del calcio d’angolo come metafora di una “difficoltà estrema”, di un “caso limite” nell’escogitare soluzioni – un caso di abilità balistica fuori dell’ordinario. Per capirne il senso occorre un minimo di cognizioni euclidee: la porta di un campo da calcio misura in lunghezza 7 metri e 32 centimetri ed è alta 2 e 24 centimetri (il perché di queste frattaglie è da ricondurre all’interpretazione delle misure anglosassoni originarie); per conseguire lo scopo del gioco occorre scagliarci dentro il pallone ed è ovvio che la posizione migliore per poterlo fare – la posizione in cui la superficie della porta è la più ampia possibile – è quella centrale – più a lato è il punto da cui calci e più la porta si restringe – e la linea di fondo – quella che delimita il campo e, al contempo, definisce la soglia d’ingresso della porta medesima – costituisce il massimo della restrizione. Conclusione: se il pallone potesse viaggiare soltanto in linea retta, calciato dalla linea di fondo non potrebbe in alcun caso entrare in porta. Ma il pallone non viaggia soltanto in linea retta – e la linea retta stessa peraltro è una finzione epistemologica, un modello ideale – e si dà il caso che la bandierina del calcio d’angolo sia situata esattamente sulla linea di fondo. Ad una certa distanza, peraltro – in considerazione del fatto che la porta è situata al centro della larghezza del campo, una larghezza che è tollerata per un minimo di 45 metri e per un massimo di 90 metri. Calciare da quella posizione e da quella distanza, pertanto, anche a prescindere dal fatto che la porta è protetta da un portiere, e riuscire a far entrare il pallone in rete non è impresa facile per nessuno. Neanche per un calciatore di professione. Occorrono doti balistiche notevoli e, presumibilmente, piede calciante acconcio. Li aveva un certo Palanca.
Mi sono dilungato. E, d’altronde, per risalire al significato metaforico di un titolo – come Tredici gol dalla bandierina, titolo che designa un romanzo di Ettore Castagna (Rubbettino 2018) -, era il minimo indispensabile. Come base. Ora arriva il vertice.
Dal 1974 al 1981, Massimo Palanca, ala sinistra del Catanzaro – e il nome della squadra, come il nome di una città particolarmente ventosa, qui, non è privo di significato – segna tredici gol direttamente su calcio d’angolo e questa sequenza viene ad essere assunta come la scansione dei momenti di formazione ideologica del protagonista di una narrazione che viene condivisa da quella che, volendo e sapendo di esagerare, potrebbe essere designata come “un’intera generazione”.
Castagna non è scrittore da scorciatoie accomodanti – non lo è per le idee che frullano in testa dei suoi protagonisti, non lo è per il bagno di storia patria in cui sguazza e non lo è per le soluzioni espressive con cui racconta tutto ciò.
Il flusso sintattico della sua scrittura asseconda i ritmi di un pensiero-linguaggio mai disgiunto dall’emotivo. Correlazioni intere, a volte, risolte in grumi morfemici – nomi-verbi, nomi-aggettivi, verbi-nomi, aggettivi-nomi e via agglutinando – e, spesso, in concordanze contraddette – soggetti singoli chiamati a reggere verbi al plurale, per esempio. Confinarlo al parlato – questo linguaggio .- è forse riduttivo, perché la grana della voce, di concerto all’assunto narrativo, tradisce gioventù e prorompente dimestichezza nonché la rinuncia alle mediazioni letterarie. Come già con il precedente, Del sangue e del vino (Rubbettino 2016), Castagna va dunque ad inscriversi in quella letteratura poco istituzionale – e poco consumistica – in cui linguaggio e riflessione sul linguaggio diventano tutt’uno spostandosi gradualmente fino a situarsi nel versante della critica di una società che – consumistica, e consumistica tanto – sul linguaggio non riflette affatto mentre ne subisce passivamente la logica che lo governa.
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