Sono passati oltre quarant’anni dal febbraio 1981, da quando Achille Occhetto – alcuni dicono troppo precipitosamente – cambiò il nome del PCI in PDS. Era uno dei soliti lavori di riverniciatura, primo passo verso la revisione con snaturamento di un partito, senza del quale la storia d’Italia sarebbe stata molto diversa, certamente meno interessante sul piano delle grandi conquiste sociali. La revisione, all’ombra della nuova sigla e del nuovo simbolo, ha portato lentamente all’abbandono di una politica di sinistra, con notevoli perdite di molte delle conquiste ottenute con lotte fuori e dentro il Parlamento. Forse è questa la ragione per cui, da qualche anno, si assiste ad una frequente comparsa di scritti e saggi che, o per nostalgia, o per rimpianto, o per rabbia, cercano di recuperare, almeno sul piano storico, l’antico glorioso PCI, che, nel tempo lontano degli anni Quarantotto-Cinquanta, fu scomunicato dal Papa e dichiarato forza demoniaca.
In ordine di tempo compare ora un saggio dell’on.. Giuseppe Pierino (Fausto Gullo, un comunista nella storia d’Italia, Rubbettino, 2021, con prefazione di Aldo Tortorella). Calabrese, Giuseppe Pierino conobbe personalmente Fausto Gullo (Catanzaro, 1887- Cosenza, 1974) e ne restò ammirato. Oggi, purtroppo, pochi lo conoscono e pochi se ne ricordano, pur avendo egli avuto un grande ruolo nel PCI dell’immediato dopoguerra, e per non pochi anni.
Bisogna premettere che Gullo non fu un funzionario di partito. Questo gli consentiva di muoversi con grande libertà, pur in presenza di un partito fortemente centralizzato e, in certo qual modo, dominato dalla personalità autorevole, e anche autoritaria, del , cioè di Palmiro Togliatti. Pierino attribuisce la libertà di pensiero e di movimento di Gullo alla sua formazione lontana. Figlio di famiglia di professionisti calabresi, a differenza di quanto, nel Sud, è successo all’interno del ceto sociale dei , si era nutrito dei valori di libertà e giustizia, leggendo, già in famiglia, e a scuola, il pensiero di filosofi meridionali, soprattutto calabresi. Molto, in particolare, si lasciò affascinare dai valorosi intellettuali meridionali che, formatisi a Napoli presso una Università allora segnata dal pensiero illuminista francese, ne avevano abbracciato gli ideali, promovendo la rivoluzione napoletana del 1799. Alla caduta della repubblica napoletana, e al rientro dei Borboni, moltissimi di quei rivoluzionari erano saliti sul patibolo di Piazza Mercato, creando una gloriosa schiera di valorosi martiri. Il giovane Fausto fece suoi quegli ideali rivoluzionari; quindi, passato a studiare presso l’Università di Napoli, si avvicinò al socialismo, seguace di Bordiga. A quegli anni dovettero risalire la conoscenza e la lunga amicizia con il lucano Michele Bianco (Miglionico, 1895-1981).
Successivamente, non avendo trovato nella dottrina di Bordiga condizioni per un impegno attivo e costruttivo, preferì seguire Gramsci e il PCI; poi, alla caduta del fascismo, e al momento dello scoppio della guerra partigiana e della lotta antitedesca, accettò in pieno la svolta di Salerno, lanciata da Togliatti. Con Togliatti, infatti, fu d’accordo sulla necessità di dare innanzitutto indipendenza e libertà all’Italia, per poi, in un secondo momento, pensare alla sua organizzazione politico-istituzionale, e ad un progetto socialista.
Fu l’inizio di una stretta amicizia e dialettico rapporto. Di Fausto Gullo, ricorda Pierino, Togliatti ebbe sempre gran rispetto e stima, a volte ascoltando e prestando orecchio alle sue posizioni, altre volte ignorandole, soprattutto per la necessità di obbedire alle stringenti necessità di un grande partito, tanto difficile da mantener unito nelle numerose lotte che, in quegli anni, si andavano affrontando..
Nel primo governo Badoglio, di cui fece parte il PCI, Gullo, insieme con Togliatti, ebbe un ruolo di riguardo. Fu ministro dell’Agricoltura; a Togliatti, invece, toccò il Ministero della Giustizia. Successivamente, nel secondo governo Badoglio, essendo rimasto fuori Togliatti, all’avvocato Gullo toccò il Ministero della Giustizia.
Sia nell’uno che nell’altro ruolo, Fausto Gullo assunse posizioni sempre coraggiose e innovative. Ministro dell’Agricoltura, da bravo calabrese, meridionale e meridionalista, competente per famiglia di problemi agricoli, era convinto che il primo problema della Nuova Italia era il Sud. Non era, in questo, lontano da Gramsci; era anche convinto che il Sud, ad economia quasi tutta agricola, doveva riporre tutte le sue speranze nell’agricoltura e, in particolare, nella soluzione del problema “latifondo”. La terra andava a chi la lavorava.
Si era nel 1944; c’erano le prime manifestazioni contadine, quando Gullo, interpretando le istanze che arrivavano dal basso, emanò sei decreti (1944-1945), all’interno dei quali creava l’”ammasso del grano”, con cui intendeva soddisfare il problema della fame diffusa; quindi, con mossa da ritenersi rivoluzionaria, stabiliva che alle cooperative agricole di braccianti andavano assegnate le terre incolte e mal coltivate, da espropriare e sottrarre alla proprietà privata. Tanto coraggio gli meritò il titolo di “ministro dei contadini”. Chiaro era, in quei decreti, l’indirizzo politico, cioè collettivista. Si puntava, infatti, sulle cooperative. La riforma agraria del 1950, invece, su spinta della DC, avrebbe scelto la proprietà familiare, cioè individuale. Certo, non a tutti, anche nel partito, la mossa piacque; largo consenso, però, ottenne tra le organizzazioni contadine, in quei mesi già in lotta per la terra.
Anche i suoi interventi di riforma della giustizia destarono agitazione; ma, lui, le sue posizioni le sostenne sempre con coraggio.. Dichiarò che non gli erano gradite le giurie popolari; fu a favore del divorzio. Non accettava l’idea di una magistratura indipendente dallo Stato, che significava rischio che la Magistratura si sovrapponesse allo Stato stesso. C‘era chi, per esempio, tra i cattolici, sosteneva che i giudici dovevano rifiutarsi di applicare le leggi che non condividevano. Riconosceva alle donne il diritto ad entrare in Magistratura; chiese la riforma del Codice penale, troppo fascista.
Tornato poi libero cittadino e libero professionista, già tra i fondatori del PCI, tesserato del PCI, presente tra i Costituenti, presente negli organismi più alti del Partito, e in Parlamento dal 1948 al 1972, non cessò mai la sua attività di pungolo perché il partito non si snaturasse e, anzi, rimanesse sempre nazionale e internazionalista. Da membro della Costituente, fu contro il regionalismo, che, a suo parere, si sarebbe ritorto tutto contro il Sud. A conti fatti, non aveva torto. Con l’autonomia, il Sud, abbandonato a sé stesso, sarebbe stato preda delle peggiori forze conservatrici e della delinquenza organizzata.
Non era d’accordo con Togliatti sulla “questione cattolica”. E glielo scriveva. Togliatti, come in seguito Berlinguer, era ossessionato dalla presenza cattolica, da lui ritenuta forza saldamente incardinata nella società italiana. Insisteva, perciò, sulla necessità di dialogo e sulla cattura dei cattolici al partito comunista, che, anche per questo, volle “nuovo”. L’operazione, secondo lui, doveva passare attraverso necessari rapporti e intese con la DC. Gullo, invece, forse in virtù della sua lontana formazione “giacobina”, faceva notare, acutamente, che un conto era la DC, altro conto erano i cattolici. La DC, legata a forze reazionarie e detentrici del potere economico, non poteva essere alleata o incontrarsi col progetto sociale, politico ed economico che era del PCI. Stretti legami, invece, questo doveva mantenere col comunismo internazionale. Per questo fu contro la proposta della via nazionale al socialismo, sostenuta da Berlinguer e Amendola. Percorrendo la terza via, si correva il rischio di perdere la “via maestra”. Con notevole coraggio intellettuale, perciò, e sempre con spirito giacobino e puro, non esitava a condannare De Gasperi e il suo asservimento a papa Pio XII, uno dei papi più reazionari che la Chiesa possa vantare. Da quel papa era arrivata la scomunica al Partito, con cui, cinicamente, si colpiva persino la buona fede della povera contadina di paese, abituata ad andare a Messa tutte le mattine. Da De Gasperi era arrivata la proposta della ”legge truffa”.
Contrario ad ogni contaminazione della dottrina, Gullo si dichiarò contro il centrosinistra e, a maggior ragione, contro il vagheggiato compromesso storico, da lui, come ricorda Aldo Tortorella, giudicato “pericolosa illusione”. Poco d’accordo fu con la operazione di destalinizzazione compiuta da Kruscev nel 1956. In questo era sulla stessa linea di un altro comunista “puro”, quale fu Concetto Marchesi. Qualche comprensione ebbe persino per l’invasione d’Ungheria da parte delle truppe sovietiche. Meno che mai si sarebbe ritrovato nel PD attuale, frutto di un connubio innaturale, in cui, alla fine, hanno prevalso i democristiani di ieri e di oggi, più organizzati, meglio innervati nelle strutture e nei gangli dello Stato, più vicini al potere economico e a quanti posseggono i mezzi di produzione. Riteneva che, a voler unire il servo e il padrone, il debole e il forte, alla fine, in qualsivoglia alleanza, è il forte che trionfa.
A dirigere il PD, di fatto, e a rappresentarlo nelle istituzioni, alla fin fine sono rimasti loro, i democristiani. Chi voleva salvare l’antica matrice del PCI e aveva a cura la giustizia sociale e la equa distribuzione della ricchezza e del diritto, ha potuto solo organizzare la sua scissione. Piccola pattuglia. Oggi, il PD, quasi sempre a direzione democristiana, col “moroteo” Letta cerca alleanza col Centro, percorrendo le orme non di De Gasperi, ma quelle dei più flessibili Moro e Forlani, Andreotti e Piccoli, fino ad arrivare al notabilato meridionale dei Colombo, dei De Mita, dei Misasi e dei Gava.
Oggi il Sud è qua. Rispetto al Nord risulta molto più arretrato di quanto lo fosse al tempo di Gullo. Partivano i bastimenti; ora partono i treni e gli aerei. E’ quanto si legge, con una punta di amarezza, in sottofondo nel libro di Pierino, tutto da studiare e da gustare, tanto più che, per la ricchezza di note e di testi ipertestuali, il percorso della vita e della attività di Gullo si traduce in percorso e attività dell’ intero PCI. E, quindi, della stessa storia d’Italia.
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