Cambiare prospettiva. Facile a dirsi, più complesso a farsi: specie se si parla di agroalimentare in questa era di mutamenti e allarme. Provate a farlo mentre spingete il carrello in un grande supermercato. Oppure mentre vi avventurate per strade di campagna alla ricerca dei “sapori di una volta”. Cambiare modo di vedere le cose è l’impegno che Maurizio Pescari ci sprona a prendere in tempi di olii extravergine selezionati e grossolane contraffazioni, nel suo libro L’olio e gli altri ingredienti della nostra vita (Rubettino editore, 152 pagine, 14 euro). Non un libro sulla millenaria cultura dell’ulivo, che pure compare tra le pagine, bensì un viaggio che vuole portarci a riscoprire il senso di fare olio oggi, oltre le tradizioni (rispettate) ma contro le consuetudini. Perché, avverte l’autore in premessa, «l’olio buono occupa oggi solo il 3 per cento del mercato in Italia».
Esce per Rubettino il libro di Maurizio Pescari «L’olio e gli altri ingredienti della nostra vita»: una riflessione sull’extravergine – non un elenco di cultivar né una guida a punteggi – per provare a immaginare un futuro diverso dell’olivicoltura e dei nostri consumi quotidiani (solo il 3% del mercati sceglie Evo di qualità). Fermandosi in visita da contadini innovatori, capaci di distinguere tra (dannose) consuetudini e tradizione
Dunque iniziare a leggere il libro di Pescari significa intraprendere un percorso verso la conoscenza della storia dell’olivicoltura e dei meccanismi (in certi casi perversi) che regolano il mercato dell’olio, tenendo però ben presente chi cerca di fare olio nel modo migliore, le persone più che le tante cultivar di cui va fiera l’Italia. «Qui non leggerete di tecniche colturali o cultivar – precisa infatti Pescari –, di estrazione, di colori, profumi, sapori, di dolce o amaro, di piccanti, di difetti o abbinamenti; tantomeno faremo classifiche». E’ dunque un libro sull’olio, sì, ma sulla rivoluzione necessaria in agricoltura perché l’olio abbia un futuro. Un libro che parla di valori trasferiti nell’Evo (l’extra vergine di oliva), di «persone che vivono intimamente la soddisfazione di avere emozioni dalla propria attività (agricola), senza fare proclami, senza misurare il risultato finale con il denaro». Persone come quelle che Pescari incontra e racconta inframmezzando le sue riflessioni sull’olio del domani con episodi di vita contadina: come quando si ferma a colazione dall’amico Francesco a Longobardi, in Calabria; oppure a Vernole, nel Salento, a casa di nonna Carmela; a Molfetta, da Francesca e Giuseppe; e ancora a Ronti, lembo di terra che da Città di Castello va a Morra, in Umbria, a provare il brustichino di Dante; o tra Dolcedo e Valloria in Liguria, da Claretta, e a Varigotti, da Domenico.
Emozioni e sapori, ma il vino è più avanti
Ogni sosta è un’immersione in emozioni e sapori, e a quasi tutte è abbinata una ricetta semplice, antica. Ma non basta essere antichi, spiega l’autore, per produrre l’olio migliore. Occorre, anche in olivicoltura, saper guardare avanti, come fa Josko Gravner, straordinario viticoltore di Oslavia, quando progetta un vino: in un recente post sul suo profilo Facebook (vedete? legati all’antico ma moderni), Josko ha raccontato la genesi di un vigneto che ha piantato nel 2006 pensando ad uve che saranno pronte nel 2025 per dare vino che sarà imbottigliato nel 2032. «Fermatevi e pensate al vostro tempo, non solo al presente, ma al futuro – scrive Pescari rivolto ai produttori come ai consumatori –. Provate a immaginare, come fa Gravner, di poter essere quella persona in grado di piantare un ulivo insieme a un figlio, a un nipote, pensando all’olio che da quelle olive arriverà da lì a dieci anni».
Irrigare, potare bene, combattere i parassiti
E restando al parallelo con la viticoltura, provate a pensare quante cose sono cambiate in vigna negli ultimi trent’anni: dal diradamento dei grappoli alla selezione dei lieviti prodotti in cantina, fino alle moderne tecniche di lotta biologica ai parassiti. Provate a chiedere invece ad un olivicoltore di cambiare le sue abitudini produttive, di irrigare, di potare in maniera diversa, di proteggere la pianta dai parassiti in modo attivo ma rispettoso dell’ambiente… il più delle volte vi risponderà con un’alzata di spalle: «Nutrire l’ulivo, dargli acqua? Mai sentito. S’è sempre fatto così». Ecco, spiega l’autore, quando l’uomo si attacca alle consuetudini in modo cieco, fa un danno a se stesso e alla natura. Tradizione e Consuetudine non sono sinonimi: «La consuetudine si disinteressa, fino a comprometterla, della qualità del prodotto finale. Non riconosce l’evoluzione del gusto nel tempo, nella convinzione che ciò che era buono cinquant’anni fa lo debba essere ancora oggi», scrive. Mentre «tradizione è ripetere certi usi avendo cura di migliorare la qualità del prodotto finale… dobbiamo scegliere cosa prendere dal passato e cosa tramandare al futuro; quasi fossimo un filtro di qualità».
La qualità dell’olio andrebbe insegnata a scuola
Sulla qualità dell’alimento olio Pescari insiste, arrivando a teorizzare che la scuola dell’obbligo dovrebbe educare i giovani in tal senso. E ben prima che arrivino alle porte dei pochissimi corsi di olivicoltura degli Istituti tecnici agrari. «Il disinteresse che esiste nel consumo domestico di olio, dove si sceglie per il prezzo piuttosto che per il valore, ignorando la qualità, è figlio di un disinteresse ben più importante, culturale, educativo e di una grave lacuna nel nostro sistema scolastico». E l’autore avverte che il problema non si può superare lasciando che la diffusione della cultura dell’olio sia affidata a «corsi tenuti da assaggiatori su e giù per il Paese». Al contempo salvare l’olio significa difendere l’agricoltura dei piccoli contro quella dei grandi gruppi. Secondo Pescari, il peso del passaggio dall’agricoltura all’agroindustria ha stravolto i nostri usi alimentari e cancellato tradizioni sane.
I danni arrecati dall’agroindustria
«L’agroindustria opera su grandi superfici, per produrre grandi quantità seguendo pratiche agricole e sociali al limite della sostenibilità; è ormai evidente che l’obiettivo non è più produrre cibo (e l’olio è un alimento, ndr.), ma produrre denaro. Il cibo, il frutto, non è più un fine, ma il mezzo». L’olio buono come testimone della “triade mediterranea” (cereali, vite e ulivo), che alimentava e dava sostentamento alle famiglie all’epoca della Mezzadria, potrebbe essere il paradigma di una rivoluzione che contrasti e scalzi l’agroindustria riportando i contadini al centro di un progetto di tutela dell’ambiente e della nostra salute. Ma per fare olio buono occorre cambiare prospettiva, come dicevamo all’inizio, e saper fare evolvere la tradizione nel modo giusto. In un’epoca in cui «è esploso il valore del mangiar bene» e il vino ha compiuto la sua rivoluzione, l’olio stenta ad affermare una sua diversa identità. Nonostante tra gli Anni ’90 e l’inizio del terzo millennio sui circa 5 mila frantoi attivi in Italia si sia passati dal 10 al 95% di impianti che hanno abbandonato il sistema tradizionale di estrazione a presse per passare all’estrazione “a freddo”, non sono cambiate abbastanza la qualità e la selezione delle olive prodotte.
Gli olii a 3 euro e il bollino Dop
In olivicoltura – al contrario di quanto accaduto per la viticoltura e l’enologia – si raccoglie «di più e peggio per produrre oli mediocri». Tra digressioni sul valore del frantoiano («è lui che fa l’olio buono, non bastano le olive buone») e sul falso mito del kilometro zero («La distanza non definisce la qualità: io sono per il ‘Km buono’ non per il ‘km zero’»), Pescari ci porta a riflettere sul prezzo dell’olio: sulle etichette, che un extravergine costi 3 euro oppure 20 euro al litro, ci sono scritte sempre le stesse cose, o quasi. Riconoscere l’olio migliore sullo scaffale della grande distribuzione non è facile. L’unico elemento che davvero ci aiuta è il bollino giallo e rosso della Dop, denominazione di origine protetta (e adesso c’è anche la De.Co., la denominazione comunale). E attenti a non scegliere in base alla risonanza geografica, ovvero a quell’idea che lega il valore dell’olio buono a certe regioni di produzione – Toscana, il Garda, la Liguria, l’Umbria -, un concetto, sottolinea l’autore, che a volte muta le terre di eccellenza dell’olio «in terre in cui la mediocrità spunta comunque prezzi alti».
Innescare la rivoluzione dell’olio di qualità
Tra i «nemici della diffusione della cultura dell’olio», questo saggio che si legge come un romanzo non mette – a sorpresa – soltanto chi consente le vendite sottocosto o chi commercia una bottiglia di (presunto) Evo a 1,99 euro al litro, ma anche molti consumatori non avveduti e certi produttori che potrebbero fare la differenza ma non riescono a dare il giusto valore al frutto del proprio lavoro perché non ne sanno valutare il posizionamento corretto. Ci vorrebbe un’azione collettiva, di categoria, per innescare la rivoluzione dell’olio di qualità e sottrarre importanti quote di mercato agli oli prodotti dall’agroindustria. Eppoi alla fine, purché si consumi olio migliore, varrebbe qualsiasi idea, compresa quella suggerita da un recente, affascinante studio della Facoltà di Agraria di Portici: ovvero che l’olio extravergine d’oliva, tra le sue virtù abbia anche un “potere saziante”; che il suo consumo faccia diminuire l’appetito. Buona notizia, commenta Pescari, «visto che nel mondo cosiddetto evoluto si spende più per dimagrire che per saziare». Quando soppesate il prezzo di un olio buono al momento di fare l’acquisto, pensate a quanto paghereste un nutrizionista che vi aiuti a perdere peso.