C’è una novità e crediamo che sia…femmina. Gli ultimi dati dell’Aire, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero che restituisce i numeri di coloro che hanno lasciano il bel Paese per vivere altrove ci dicono che, nel 2017, siamo arrivati a quota 5 milioni 114.469 persone di cui la metà vivono in Europa. È, come da anni avviene, un flusso in crescita: gli espatri sono ancora in aumento (+ 3,6%), anche se la fascia più giovane (20/40) segna un piccolo decremento (-0,3%) che forse si spiega semplicemente con la resistenza, in una fase di prima e mobile emigrazione, a iscriversi all’Aire, il che comporta, per esempio, la perdita dell’assistenza sanitaria in Italia.
Sono dunque questi dati sottostimati, come da tempo ci avvertono demografi, statistici e ricercatori sociali, ma la novità è che, quest’anno, portano alla luce una tendenza ben nota a chi conosce, per esperienza, l’emigrazione giovane dall’Italia. Anche i numeri adesso rilevano che è in aumento l’emigrazione delle donne, soprattutto delle più giovani, e che addirittura, in alcune regioni italiane, sono più mobili dei loro coetanei.
Tra i 20 e i 30 anni le ragazze vanno veloci, si potrebbe dire: in ben sette regioni italiane – secondo i dati Aire riportati da Sergio Nava sul Sole 24 ore – la metà o la maggioranza di coloro che hanno lasciato l’Italia è femmina. In cima alla classifica in questa fascia d’eta troviamo il Friuli-Venezia Giulia, che conta il 54% di giovani donne emigrate, al 53% ci sono le Marche, al 51% Molise e Veneto (51%), mentre il dato generale ripropone la Lombardia come regione a maggior tasso di espatrio seguita dall’Emilia Romagna e una composizione per genere che vede il 55% di uomini e il 45% di donne.
In un recente incontro al Salone del libro di Torino intorno al mio libro Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza uscito per Cairo editore a marzo scorso, la giornalista Stefania Miretti mi ha chiesto quanto di antico e quanto di nuovo ci sia in questo andare dei giovani italiani, i cui numeri imponenti e le domande sottostanti solleciterebbero peraltro ben altra attenzione pubblica.Tra gli elementi di novità, questo “al femminile” è uno dei più rilevanti: in una terra di emigrazione qual è stata storicamente l’Italia, la mobilità delle donne ha cambiato oggi faccia, qualità e scopo. Quella cui assistiamo non è più l’emigrazione storica, di tipo familiare, di chi raggiungeva o partiva con marito e figli al seguito, ma è quella che potremmo chiamare l’emigrazione dell’autonomia, la mobilità di giovani donne che partono da sole perseguendo un proprio progetto di studio o di lavoro o che sono, come e più dei loro coetanei, a caccia di migliori opportunità là dove si presentano.
Ai genitori che ho intervistato per Ciao amore ciao ho posto una specifica domanda sulle ragazze: quanto ha contato il genere nella decisione di sostenere o al contrario frenare il progetto di espatrio? Le risposte che ho ottenuto tracciano un inequivoco, forte filo rosso tra le ragazze degli anni ’70 – le madri – e le figlie expat, quasi una sorta di passaggio di testimone tra la generazione che ha attraversato gli anni del femminismo e dell’emancipazione e che oggi sa quanto ancora dispari siano in Italia le carte tra uomini e donne e dunque sostiene con forza, seppur con non poche difficoltà sul piano dei sentimenti, la scommessa delle figlie all’estero. Questo lascito di energia e fiducia vede protagonisti anche i padri che ho ascoltato e che si rivelano essere assai importanti per la costruzione dell’autonomia delle figlie, come ha scritto Chiara Saraceno nel suo Mamme e papà. Gli esami non finiscono mai (Mulino, 2016): «Dai racconti di figlie adulte spesso emerge quanto sia stato importante l’atteggiamento del padre nei loro confronti, le sue aspettative, i modelli di genere femminile che esplicitamente o implicitamente proponeva, la sua valorizzazione o svalorizzazione delle loro capacità e ambizioni».
Un’emigrazione dunque, quella delle ragazze, che ci parla di autonomia e libertà di scelta: non ci sarebbe (e in parte non c’è) che da esserne felici se però l’Italia – paese poco amico dei progetti di lavoro e di vita dei giovani, che ne lascia partire di più di quanti ne arrivino – non perdesse le loro competenze e le loro energie in un andare che spesso è senza ritorno. Come ha notato in Ciao amore ciao e in molti altri interventi, il demografo Alessandro Rosina, siamo davanti ad un paradosso: i giovani italiani sono allo stesso tempo pochi e «sprecati», non mettere a principale tema di politiche la loro vita e il loro lavoro, visto anche le tendenze demografiche di un Paese che invecchia e fa sempre meno bambini come ha certificato in questi giorni il rapporto annuale dell’Istat che ha peraltro confermato anche l’aumento degli espatri, rappresenta un boomerang per il sistema paese.
«L’Italia perde giovani qualificati, circa il 2,4% e non riesce ad attrarne dall’estero. E non si tratta solo di un impoverimento quantitativo ma anche qualitativo», sottolinea Tommaso Vitale nel suo saggio contenuto nell’interessante indagine dell’Iref curata da Gianfranco Zucca Il ri(s)catto del presente. Giovani e lavoro nell’Italia della crisi’(Rubettino 2018). Proviamo a declinare anche al femminile gli aggettivi messi in fila da Vitale – giovani, qualificati, dinamici – e la perdita collettiva è vieppiù evidente, e più grave appare aggiungendone un altro, frutto questo della ricerca sugli expat italiani a Manchester, realizzata da Monica Santoro e citata da Vitale. Quell’aggettivo è scettico e si riferisce alla scarsa fiducia che i giovani intervistati, aldilà della difficoltà personalmente incontrate in patria, dimostrano nella capacità dell’Italia di uscire da una crisi strutturale che vedono investire «le istituzioni, la cultura, i rapporti tra le generazioni, le relazioni di potere all’interno della società italiana».
Vanno via con questo bagaglio, con questa eredità che nel nostro paese l’essere giovani donne rende ancora più pesante, le nostre figlie autonome e mobili: e se noi, madri ex ragazze degli anni ’70, le spingiamo e le sosteniamo non possiamo però non vedere anche la faccia ambivalente e ‘costosa’ di questa loro libertà.
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