Di cosa parla il suo ultimo romanzo, “Della Grecìa perduta”?
Direi che questo romanzo fa parte del progetto un po’ onirico e un po’ letterario del raccontare un Sud di tutti Sud, un Sud in cui tutto avviene in modo epico e assoluto fra gente assolutamente comune. È un mondo primordiale, nel quale conta un realismo magico e fantastico. Il protagonista è Nino, pastore greco analfabeta, ma appoggiato e istruito da spiriti e anime della terra. Cerca se stesso in una Calabria antica, siamo nel decennio Murattiano, nel XIX secolo. Nino vaga per la Calabria meridionale, apparentemente senza meta ma, nella realtà, cerca se stesso e cerca una forma di patria che lo accolga, che non lo faccia sentire estraneo in questa vita. Cerca la sua “Grecìa” perduta. La “Grecìa” è un concetto antico, è l’antica definizione delle comunità greche della Puglia e della Calabria ma, per Nino, è il luogo di una ricerca sentimentale, più immateriale che concreta. Quello che troverà lo lascio scoprire al lettore. Di sicuro la mia formazione storico-antropologica mi ha fornito tanto materiale sul quale ricamare il racconto. Mi piace l’idea del romanziere come cercatore di storie e di sogni.
C’è un messaggio specifico che vuole trasmettere ai suoi lettori?
Io non ho niente di così importante da insegnare. Trovo un po’ ridicola la vecchia figura archeologica del poeta vate o del filosofo che indica la via. I greci dicono: “io non sono niente”. La condizione umana è fragile e precaria e la vita è breve. Tutta la bellezza e la meraviglia sta nella continua ricerca, nella sete di sapere e di conoscere che ci accompagna da quando nasciamo fino al momento della morte. Per taluni possiamo dire: da quando rinasciamo. Ed è il caso del mio personaggio.
“Della Grecìa perduta” fa parte di una serie…
Si tratta dichiaratamente di un sequel. “Della Grecìa perduta” prosegue un’epica che era stata, in qualche modo, inaugurata con “Del sangue e del vino”. Era il mio romanzo d’esordio. Una famiglia di profughi greci arriva in Calabria alla fine del ‘600. Ne nasce la saga di tre generazioni fra magia, realtà, ucronia, finzione e testimonianza storica. I personaggi, una volta creati, diventano amici e compagni di vita dello scrittore. Nei miei sogni narrativi a occhi aperti sono stati loro a chiedermi di immaginare un sequel per accordare una vita più lunga a quello stesso sogno. In realtà ci dovrebbe essere almeno un altro episodio, anche se il mio progetto ipotizza una quadrilogia. Ogni tanto coltivare qualche ambizione pazza può fare bene.
E, invece, il romanzo precedente a questo?
Nel 2018, sempre per Rubbettino, è uscito “Tredici gol dalla bandierina”. Qui si tratta di tutt’altro scenario. È un romanzo di formazione. Un ragazzo sogna di cambiare il mondo come tutta un generazione con lui. Questi sogni vengono proiettati in modo quasi zen, fra riflessione esistenziale e filosofia politica, sulle gesta del suo idolo calcistico. Ne deriva uno sviluppo agrodolce, un po’ autobiografico e un po’ no.
Lei è antropologo, musicista e scrittore. In quale dei tre ambiti si sente più a suo agio? Cosa le dona ognuno di questi ambiti?
Ironizzo spesso su me stesso dicendo che non ho deciso bene che farò da grande. Devo dire che non ho mai vissuto con frattura la convivenza di tutte queste anime in me. Non so in realtà dove inizi e finisca l’antropologo, ovvero lo scienziato, poi il musicista e lo scrittore. In realtà, riesco a fare solo le cose che mi emozionano e mi divertono. Nella vita e nel lavoro. Non mi interessa se sono alla moda o se sono troppo controcorrente. Devono piacere a me per primo. Ho sempre vissuto così il mio percorso artistico. Non so, dunque, se sono capace di rispondere fino in fondo alla sua domanda. In realtà, come avrebbe detto mia nonna, «Mangi diverso ma il cuoco è sempre lo stesso.»
Da molti anni vive a Bergamo. Da calabrese emigrato come vede la Calabria da fuori e cosa le manca di più della sua terra?
Io non credo alla calabresità e, francamente, mi sento cittadino del mondo. Sicuramente per me la Calabria è “Il paese che ci vuole” per dirla alla Pavese. Ho amore e rispetto per le mie radici. In merito alla Calabria in sé non le dirò, forse, cose troppo originali. Condivido l’odio/amore che tutti i calabresi emigrati hanno per la propria terra. Vorrei vedere le cose cambiare. Certe volte cambiano, ma troppo piano o non come piacerebbe a me. Pazienza. La Calabria è la regione che ha dato alla nazione più emigrati da sempre. Siamo in testa saldamente a tutte le classifiche migratorie e non ci sono segni che perderemo questo primato. Amo tornare in Calabria, quando posso. Non so se ci potrei più vivere, perché l’emigrazione crea disadattamento. Non si appartiene più a un posto preciso. Antonio Margariti diceva: «In America mi chiamano l’italiano, in Italia mi chiamano l’americano.»
Da ragazzo, cosa sognava di fare da grande?
Come dice Francesco Guccini “a vent’anni si è stupidi davvero”. Da ragazzo sognavo di andarmene in California e avevo il mito dell’America. Poi, a diciannove anni, scoprii la ricchezza del Sud e quello divenne il mio personale viaggio in India. Un’India contenuta fra Napoli, Catanzaro, Palermo e la Grecia. La mia vita ha sempre assunto derive di cui non sono mai stato capace di prevedere tutte le conseguenze. Ho fatto tante cose e, certe volte, penso magari troppe. Magari contrastanti. Il professore o il musicista? Il ricercatore, lo scrittore o il manager? In ogni caso non sono né un pentito, né un reduce. Per poter vivere è bene imparare ad amare anche i propri errori. Di sicuro non mi sono mai opposto ai miei sogni anche se, invecchiando si diventa più realisti e si sorride di più di noi stessi.
Quali saranno i suoi prossimi progetti?
A breve dovrei pubblicare un progetto musicale nuovo sulla canzone d’autore italiana tradotta in dialetto calabrese e adattata ai ritmi della chitarra battente. Un progetto sospeso fra letteratura e ricerca sonora abbastanza unico nel suo genere. Poi ho ovviamente un altro paio di romanzi che già aspettano nel cassetto. Adoro scrivere e suonare. Spero di avere tempo e possibilità per continuare a farlo. Voglio tempo per gli amici e per il viaggio. Quello continuo e inarrestabile, come nei versi famosi di Konstantinos Kavafis. Tanto Itaca è troppo povera per accogliermi di nuovo e io troppo irrequieto per fermarmi davvero.
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