Come mai la Cina, fino a ieri produttore di mercanzia a basso costo, oggi domina il mercato high-tech mondiale, si impone come attore globale, assume il controllo economico e finanziario di intere nazioni ed è in grado di “richiamare all’ordine” persino gli Stati Uniti? Nel libro I cannibali di Mao (Rubbettino) Marco Lupis spiega l’origine del nuovo potere globale cinese, quali sono le sue radici e dove ci sta portando. Ricco di notizie e di testimonianze, il volume è un ininterrotto reportage e un diario di viaggio, ma soprattutto è il romanzo della storia di un giornalista che ha attraversato le trasformazioni e gli sconvolgimenti che negli ultimi decenni hanno interessato l’ex Celeste Impero, e per questo è in grado di comprendere l’attualità e i pericoli rappresentati dalla Cina di oggi. Lettera43.it ne pubblica un estratto.
Conquistare il Mondo? È una questione “Terra-Terra”
A Mashan, nel nordest della Cina, provincia dell’Heilongjiang, la notte brilla di mille particelle luminose. Ma non si tratta di miriadi di lucciole. È inquinamento. Particelle di grafite, un pulviscolo letale che si spande nell’aria, copre ogni cosa per chilometri rivestendo tutto di un velo nero, ma brillante. «Quando anche una minima luce colpisce le particelle, loro brillano nel buio», dice un contadino. Sì, perché la grafite brilla. Brilla e uccide. Si infila nei polmoni e uccide.
Alcune province in Cina hanno cercato di reprimere gli inquinatori, e tre anni fa hanno emesso multe a diverse società di grafite. Ma l’inquinamento continua. Gli abitanti dei villaggi dicono che gli sforzi di limitare l’inquinamento falliscono puntualmente – oppure sono di breve durata e sempre inadeguati – perché le autorità locali sono strettamente alleate con i funzionari delle compagnie e non sono disposti a riconoscere la gravità dei problemi ambientali. Le proteste sull’inquinamento spesso finiscono con intimidazioni nei confronti di chi le avanza. Le persone che vivono vicino agli stabilimenti di estrazione e lavorazione della grafite sono spaventate, preferiscono tenere la bocca chiusa. «Eccolo che arriva», sussurra una donna anziana a Mashan, vicino alla città di Jixi, voltando le spalle e indicando furtivamente un ufficiale del villaggio che si avvicina. Lei e suo marito stavano parlando dell’inquinamento di grafite che affligge da tempo il suo quartiere. Ma appena si intravede qualche funzionario pubblico, tacciono, spaventati.
A Mashan ha sede la Jin Yang, la maggiore fabbrica di grafite della Cina, una sostanza scintillante che, benché più conosciuta per riempire le matite, è diventata ormai una risorsa indispensabile nel nuovo millennio. È un ingrediente delle batterie agli ioni di litio. Quelle che stanno dentro i nostri smartphone e in altre centinaia se non migliaia di prodotti ad alta tecnologia. La grafite è un minerale “critico” di enorme importanza tecnologica, insieme alle “terre rare”, un gruppo di 17 elementi che (nonostante il loro nome) si trovano comunemente in natura, ma molto raramente in concentrazioni abbastanza alte da renderne economicamente possibile l’estrazione. Sono materiali importanti per la difesa, l’industria aerospaziale, l’elettronica e le energie rinnovabili. Le turbine eoliche, i motori delle automobili ibride, i sistemi di difesa missilistici, le tivù di ultima generazione, i laser, le bombe intelligenti e appunto le batterie ricaricabili hanno una cosa in comune: non esisterebbero senza questi minuscoli elementi, le “terre rare” appunto; tecnicamente 15 cosiddetti “lantanoidi”, più l’ittrio e lo scandio. E sono quelli attraverso i quali la Cina tiene per le palle il resto del mondo.
Negli ultimi due decenni infatti la Cina ha monopolizzato oltre l’80% della produzione mondiale di elementi di terre rare e prodotti chimici trasformati. E non ha mai esitato a servirsi di questa sua posizione dominante, anzi assolutamente egemonica, a fini politici e strategici. Nel 2010 ha tagliato le esportazioni in Giappone per via delle crescenti tensioni sulle dispute territoriali nel Mar della Cina orientale e l’anno successivo ha imposto quote di esportazione che hanno gettato nel panico governi e produttori. Oggi il monopolio cinese di questi elementi dal valore – non solo monetario – incalcolabile, rischia di cadere pesantemente sul tavolo del confronto, durissimo, in corso tra Washington e Pechino, nell’ambito della guerra commerciale in corso tra le due superpotenze.
Il presidente americano Trump ha messo al bando il colosso delle telecomunicazioni cinese Huawei, accusato di spionaggio e di avere violato l’embargo contro l’Iran, insieme ad altre 70 aziende tecnologiche cinesi. E la risposta cinese non si è fatta attendere. Il presidente Xi Jinping, infatti, ha subito intrapreso un viaggio che lo ha portato prima di tutto nella provincia dello Jangxi, non a caso per visitare i maggiori produttori di “terre rare”, che hanno sede nella capitale della prefettura, Guanzhou. Xi Jinping sarebbe addirittura pronto a firmare un decreto per bloccarne l’export negli Usa. E la firma del bando è stata definita dagli analisti cinesi letteralmente «una bomba atomica» sganciata su Trump e tutta l’industria tecnologica americana Usa.
Nel suo viaggio, accompagnato dal potentissimo vicepremier Liu He, Xi prima di ogni cosa ha fatto tappa nella piccola contea di Yudu, proprio dove 85 anni fa partì la Lunga Marcia, per raccogliersi di fronte al monumento che la ricorda. Un gesto che i media cinesi hanno interpretato unanimamente come un messaggio forte, una vera e propria “chiamata alle armi” del popolo cinese. Per vincere la guerra commerciale contro il nemico, si comincia dalla battaglia dei microchip fatti con le terre rare. Trump e i suoi “generali” sono avvisati.
Ma come è stato possibile, per la Cina, raggiungere indisturbata il controllo egemonico planetario di questi preziosi elementi, senza incontrare l’opposizione di nessuno? La realtà è che il controllo o l’influenza della Cina sui minerali e metalli critici che alimentano la tecnologia moderna ormai non ha rivali. Il 13esimo piano quinquennale di Pechino considera quello tra il 2016 e il 2020 un «periodo decisivo per la battaglia» per l’industria dei metalli non ferrosi e per la costruzione di una società benestante. La sua iniziativa collegata, Made in China 2025, mira a costruire industrie strategiche nella difesa nazionale, nella scienza e nella tecnologia. Per raggiungere questi obiettivi, nell’ottobre 2016 il ministero dell’Industria e dell’Information Technology ha annunciato un piano d’azione per la sua industria dei metalli che mira a raggiungere lo status di potenza mondiale: distribuendo imprese statali e aziende private in punti caldi ricchi di risorse in tutto il mondo, la Cina svilupperà e garantirà le riserve minerarie di altri Paesi, comprese quelle risorse minerarie in cui detiene già una posizione dominante.
Il tempismo non avrebbe potuto essere migliore. La caduta dei prezzi delle materie prime dal 2011 al 2015 ha lasciato molte compagnie minerarie nel mondo alla disperata ricerca di capitali. Persino i più grandi attori globali, come Anglo American, hanno dovuto tagliare la propria forza lavoro e cercare risorse finanziarie. Quelle che, come sappiamo, alla Cina proprio non mancano. Così, acquisendo direttamente miniere, accumulando partecipazioni azionarie in società di risorse naturali, stipulando accordi a lungo termine per l’acquisto di produzioni attuali o future di miniere (note come “accordi d’acquisto”) e investendo in nuovi progetti in fase di sviluppo, le imprese cinesi hanno acquisito il controllo totale o la decisiva influenza su grandi parti della produzione globale di queste risorse. Nonostante il rallentamento della crescita della Cina e una notevole riduzione dei suoi investimenti esteri diretti in altri settori, il governo ha mantenuto un solido sostegno finanziario per l’acquisizione di queste risorse; fusioni e acquisizioni in metalli e prodotti chimici hanno raggiunto un livello record nel 2018.
I numeri sono da brivido: in Argentina la Cina controlla il 41% della produzione e il 37% delle riserve di terre rare; in Australia il 58% della produzione e il 19% delle riserve; in Bolivia, le cui riserve si ritengono le più grandi del mondo, la Cina partecipa al 100% nel settore tramite un accordo azionario; in Brasile partecipa al 100% della produzione; in Chile al 67%, nella Repubblica popolare del Congo influenza oltre il 52% della produzione di cobalto con quote di partecipazione e accordi di fornitura; in Sudafrica partecipa ai due terzi di tutti i principali siti di estrazione e lavorazione. La Cina si sta anche dimostrando molto agile nell’adattarsi alle condizioni dei Paesi democratici orientati al mercato, usando società private che sono sostenute dal capitale dello Stato. Acquisendo in modo incrementale quote azionarie in importanti società di risorse locali e finanziando sviluppatori junior, le imprese cinesi stanno rafforzando la loro presenza sul mercato, superando le preoccupazioni locali sul controllo straniero delle risorse interne strategiche, come il niobio in Brasile e il tantalio in Australia.
Ma da nessuna parte questa strategia delle risorse è più evidente che nei tre paesi in cui si trovano quasi il 90% della produzione globale di litio e più di tre quarti delle riserve di litio conosciute al mondo: Cile, Argentina e Australia. In soli sei anni, la Cina è arrivata a dominare il mercato globale del litio. Infatti, anche se vanta una ricca dotazione di risorse naturali a casa sua, la Cina non ha riserve significative di tre risorse vitali per le sue ambizioni tecnologiche: cobalto, metalli del gruppo del platino e appunto litio. Per questo, per garantirsene il controllo, ha messo in atto strategie mirate molto efficaci.
Con il sostegno delle banche statali, i giganti chimici industriali cinesi – Tianqi Lithium e Ganfeng Lithium – sono diventati il terzo produttore mondiale di litio e il terzo produttore di composti chimici al litio, rispettivamente. I presidenti di entrambe le società sono cresciuti nelle fila della politica cinese negli ultimi anni, proprio quando la Cina stava iniziando a dare la priorità alla messa in sicurezza di forniture di metalli rari. In un settore a corto di liquidità, le imprese cinesi stanno finanziando l’espansione delle miniere e il nuovo sviluppo in cambio di una fornitura garantita di litio nei mercati sia maturi che emergenti. In Argentina, dove il presidente Mauricio Macri sta eliminando le tasse sull’esportazione di minerali, riducendo le aliquote dell’imposta sulle società e consentendo il rimpatrio dei profitti, la Cina sta imponendo una posizione dominante nel settore attraverso Streaming Deals Mining, operazioni di streaming minerario che forniscono capitale di sviluppo in cambio dei futuri rendimenti del litio e consentono ai progetti industriali di decollare.
La Cina sta anche cercando di espandere la sua posizione dominante sul mercato del vanadio e della grafite, assicurando forniture aggiuntive e costruendo catene di approvvigionamento integrate. Il vanadio è un metallo di transizione utilizzato nelle batterie a flusso, nei magneti superconduttori e nelle leghe ad alta resistenza per motori a reazione e aerei supersonici. Le aziende cinesi producono già il 56% del vanadio mondiale a livello nazionale e la Cina ospita il 48% delle riserve mondiali. Ma a Pechino non basta e va a fare compere in Russia e in Sudafrica. Nel 2015, International Resources Ltd., con sede a Hong Kong, una società la cui proprietà non è chiara, probabilmente controllata dal governo cinese, ha acquisito una grande miniera di vanadio dalla russa Evraz Highveld Steel & Vanadium Ltd, che si trovava in bancarotta. Nel 2016, la società cinese Yellow Dragon Holdings Ltd. ha co-investito con Bushveld Minerals, il principale sviluppatore di vanadio nel gruppo Bushveld Complex in Sudafrica, per acquisire la Strategic Minerals, che possedeva la miniera e l’impianto di vanadio della Vametco Mine. Yellow Dragon ha successivamente aumentato il suo investimento in Bushveld Minerals e ne è diventato il quinto azionista. Le partecipazioni rafforzano l’influenza della Cina sulle risorse del Vanadio del Sudafrica e il suo ruolo nel settore emergente dell’alta tecnologia del Paese. Bushveld Minerals si sta muovendo per sviluppare una piattaforma integrata per la produzione di batterie al flusso di ossido di vanadio per l’energia distribuita in tutto il Sudafrica. E naturalmente le risorse di vanadio prendono anche la strada della Cina.
Questo consolidamento delle risorse potrebbe determinare se la Cina è in grado di superare l’ultimo ostacolo per raggiungere le sue ambizioni: un’industria dei semiconduttori competitiva. La linfa vitale delle industrie high-tech, i semiconduttori, sono fatti dagli stessi minerali e metalli di cui la Cina si è ormai assicurata il controllo. I semiconduttori possono essere elementi o composti puri e alterati con impurità per migliorare la loro conduttività. Diversi materiali vengono attualmente utilizzati per migliorare la velocità e le prestazioni, inclusi elementi di terre rare e anche grafite, indio, gallio, tantalio e cadmio. E la Cina è il produttore dominante di cinque su sei, controlla oltre il 75% dell’offerta mondiale di tre e sta consolidando il controllo su tutti quanti. Se la Cina riuscisse in questo obiettivo, la cosa avrebbe oggettivamente gravi implicazioni non solo per i principali produttori di semiconduttori, ma anche per la sicurezza nazionale degli Stati, perché i chip prodotti in Cina sono incorporati in i dispositivi da cui dipendono sempre più le nostre vite – basate sui dati personali – le nostre economie e i nostri sistemi di difesa. Per questo forse il presidente Trump non ha tutti i torti a preoccuparsene e la vicenda Huawei assume contorni che sembrano tutt’altro che esagerati.
Ma la cosa veramente incredibile, alla luce della guerra commerciale in atto tra Stati Uniti e Cina e che rischia di combattersi proprio attorno a queste risorse, è il fatto che persino l’unica società che negli Stati Uniti produce e processa terre rare, la Molycorp Minerals, e le sue attività minerarie inutilizzate a Mountain Pass, in California, sono diventate nel 2017 di proprietà cinese, controllate da Shenghe Resources. L’operazione dei cinesi in questo caso è quasi comica, nella sua furbizia. Nel 2015 la Molycorp era finita in bancarotta proprio a causa dei prezzi bassi delle forniture cinesi di elementi di terre rare, e prontamente è arrivata la proposta cinese per rilevarla, soldi in bocca, come si suol dire! La sua vendita ha brevemente acceso il dibattito interno americano sull’eventualità che l’acquisizione cinese potesse rappresentare un rischio per la sicurezza nazionale, ma legalmente nessuno è riuscito a bloccarla. Quindi oggi la cinese Shenghe Resources detiene i diritti sulla produzione della miniera americana e come se non bastasse nel frattempo le importazioni di terre rare negli Stati Uniti hanno continuato ad aumentare, raggiungendo i 160 milioni di dollari nel 2018. Il fornitore? Inutile domandarlo, la Cina naturalmente. E sebbene il presidente Donald Trump abbia richiesto una revisione degli accordi e una valutazione della loro criticità per la sicurezza nazionale, la commissione per gli investimenti esteri negli Stati Uniti non ha intrapreso nessuna azione ufficiale. E nel frattempo, Shenghe e le sue filiali stanno continuando a espandersi a livello internazionale, con un importante progetto di sviluppo di joint-venture in elementi di terre rare ora in corso persino in Groenlandia. Il consolidamento della Cina nell’ambito delle risorse strategiche, insomma, non mostra alcun segno di rallentamento.
Fin dal lontano 1990, la Cina dichiarava gli elementi delle terre rare una “risorsa strategica” e proibiva gli investimenti stranieri nel settore. A quel tempo governava a Pechino il presidente Yang Shangkun, che partecipò alla Lunga Marcia e sostenne Mao Zedong. Anche se dietro di lui, a gestire effettivamente il potere, c’era un già potentissimo Deng Xiaoping, allora presidente della Commissione Militare Centrale. Chissà se Yang e Deng avrebbero mai immaginato che, tre decenni più tardi, un loro successore avrebbe chiamato a raccolta i suoi connazionali per una Nuova Lunga Marcia. E che le armi in dotazione al popolo non sarebbero state mitra e fucili, ma minerali rari. Comunque sia, di entrambi non si può certo dire che non siano stati capaci di guardare lontano.
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