Perché il successo della Grande Transizione capitalistica è la rivalutazione del lavoro
Si è svolta sabato scorso la manifestazione nazionale della Cgil per la salute e la sanità. Al principale sindacato italiano si è unita un’ampia rete di associazioni, laiche e cattoliche (circa 90 sigle). Il comunicato aveva per titolo “Insieme per la Costituzione”, in difesa del diritto alla salute, per il rilancio del Servizio sanitario nazionale, pubblico e universale, e per la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. In realtà, la manifestazione di sabato – anche per le parole di Maurizio Landini – ha voluto far emergere proposte e richieste che la Cgil vuole presentare al governo. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Oikonova e autore del recente libro “L’energia del salario” (Rubbettino 2023).
Sabella, iniziamo da qualche considerazione di tipo politico. La sinistra sociale si sta ricompattando?
È certamente questo un tentativo rispettabile – in particolare di Landini, se pensiamo alla sua idea di “coalizione sociale” di qualche anno fa – per tenere insieme chi ancora pensa che questa sia la collocazione di lavoro e giustizia sociale. A ogni modo, per sintetizzare, lo schema sinistra sociale / destra liberale è superato da molti anni. Ricordo, a proposito, un’espressione felice di Giulio Sapelli che nel 2016 – non appena eletto Trump negli USA – parlava di “rovesciamento della rappresentanza”. Ed è un fenomeno che abbiamo visto poi, anche, in Europa e nel nostro Paese: è vero che oggi c’è un problema serio di astensionismo ma è anche vero che molti lavoratori votano a destra, non si fidano più della sinistra e credono che prima la Lega e ora Fratelli d’Italia possano fare qualcosa per loro. Proprio la Cgil, dopo le elezioni del 2018, fece un sondaggio tra i suoi iscritti e ne uscì che solo il 30% aveva votato il Pd; la Lega valeva il 20% dei voti dentro la Cgil e il M5s – che solo con Conte si è posizionato a sinistra – il 30%. Già allora era evidente che la cosiddetta “cinghia di trasmissione” non funzionava più. Ma, ripeto, secondo me Landini ne è consapevole. È questo un modo per tenere compatto un fronte, anche in vista di quelle proposte che la Cgil vuol fare al governo. Non si può, però, fare a meno di notare che Cisl e Uil non ci sono. E non c’è nemmeno Azione, segno ancora una volta delle debolezze del suo leader Calenda: è lui che ha lanciato l’allarme sulla questione della sanità pubblica unendo il fronte di sinistra, ma è finito poi col farsi escludere.
Torniamo al sindacato: come mai, secondo lei, in questo frangente si è diviso?
In particolare, per le ragioni che dicevo prima. Cisl e Uil sono tradizionalmente meno legate a un ambiente politico, mentre la Cgil ne ha sempre fatto parte. La Triplice, peraltro, ha coordinato unitariamente una mobilitazione di un mese e mezzo, che ha visto tre manifestazioni importanti a Bologna, Milano e Napoli. Credo che Cisl e Uil, in questa fase, ritengano che è ora di affondare nella fase di trattativa con Palazzo Chigi. In queste ore, per esempio, governo e sindacati si incontrano per le pensioni. Teniamo poi presente che siamo quasi in vacanza e subito dopo la pausa estiva inizieranno le grandi manovre per la legge finanziaria. A tal proposito, in questa fase, in Cisl pensano che o si sta al tavolo o si sta in piazza. Credo che anche in Uil sia un po’ la stessa cosa. Peraltro, Landini stesso ha riconosciuto l’importanza del taglio del cuneo fiscale, iniziato con Draghi e potenziato da Meloni. Certo, non si tratta di un taglio strutturale. Vediamo cosa succede con la prossima finanziaria, anche perché l’inflazione purtroppo continua a erodere potere d’acquisto.
In questo senso, Landini – ma anche Schlein e Conte – rilanciano la proposta del salario minimo. È la strada giusta secondo lei?
Credo che ci sia molta demagogia in questa proposta. E credo che, sul tema, ci sia molta confusione, cavalcata un po’ per incompetenza – i politici mal conoscono i funzionamenti della contrattazione collettiva – oltre che per un po’ di furbizia. Non mi spingo a dire che non serve a nulla ma il salario minimo, in realtà, è un problema per la contrattazione collettiva – in un Paese in cui questa copre oltre l’80% dei rapporti di lavoro – e avrebbe un’incidenza minima rispetto a ciò che è realmente chiamato a risolvere. Iniziamo però col dire che ovviamente in Italia abbiamo un problema salariale molto serio di cui, dall’anno scorso, dovremmo essere tutti consapevoli.
Possiamo qui richiamare nel dettaglio questo problema?
A giugno 2022, l’Ocse diffondeva una rilevazione dalla quale risulta che, negli ultimi trent’anni, l’Italia è l’unico Paese in cui i salari annuali medi hanno avuto un andamento negativo: sono infatti diminuiti del 2,9%. Val la pena di ricordare che, nella citata analisi Ocse, i salari sono espressi a parità di potere d’acquisto, così da consentire un confronto tra i diversi paesi. Nel 1990 la retribuzione reale italiana era superiore di quasi 5 punti alla media Ocse e sopra quelle di Spagna, Francia e Regno Unito; nel 2020 l’Italia non solo viene superata da Spagna, Francia e Regno Unito ma anche da Slovenia, Israele e Irlanda, perdendo 12 posizioni. Il potere d’acquisto dei lavoratori è aumentato in media del 18,4% nell’area Ocse e del 22,6% nell’Eurozona. Il confronto con le altre economie avanzate, come la nostra, è particolarmente avverso: in Germania i salari sono cresciuti del 33%, in Francia del 31%; se poi guardiamo anche ad altri Paesi europei, in Belgio e in Austria del 25%, in Portogallo del 14% e in Spagna del 6%. Per quanto riguarda gli stati scandinavi, questi registrano il +63% della Svezia, il +39% della Danimarca e il +32% della Finlandia.
E quindi? Perché il salario minimo sarebbe inutile e dannoso, come lei dice, stante questi divari?
Perché il problema non è riconducibile ai salari bassi, semmai ai salari medio-alti: è la debolezza dei livelli intermedi che rende la situazione impietosa. E, di questo, ce ne dà conferma uno studio comparato: in una rilevazione dello scorso anno, Eurostat ci dice che la paga oraria media lorda (nel 2021) in Italia è stata di 15,55 € contro € 16,9 dell’Area Euro, i 19,66 della Germania e i 18,01 della Francia. La paga mensile lorda lo stesso anno è stata 2.520 € in Italia, nell’area Euro 2.825, in Germania 3.349, in Francia 2.895. Quella annua 34.792 €, nell’area Euro € 38.559, in Germania 44.933, in Francia 37.956. Come si evince da questi dati, i minimi retributivi italiani sono del tutto in linea con le medie europee. L’anomalia, come si diceva prima, sono i livelli medio-alti. E su questo varrebbe la pena di ragionare per trovare delle soluzioni che, tuttavia, non hanno a che fare con il salario minimo ma piuttosto con la mancanza di percorsi di carriera – vero motivo per cui i giovani vanno all’estero – e con un modello contrattuale che chiede qualche innovazione. È su questo piano che il sindacato dovrebbe lavorare e prendere distanza dalla politica nella sua proposta opportunistica di salario minimo. Inoltre, se l’obiettivo del salario minimo è rispondere a quella nebulosa dove non vi sono coperture contrattuali (leggi accordi diretti con aziende e/o ricorso a contratti cosiddetti pirata) val la pena di ricordare che i contratti firmati da CGIL CISL UIL e da qualche sindacato autonomo coprono circa il 97% dei rapporti di lavoro subordinato (elaborazioni Adapt e Fondazione Kuliscioff). Certo, il legislatore potrebbe estendere l’efficacia erga omnes della parte retributiva dei contratti maggiormente applicati. Ma, abbiamo visto, con benefici minimi. Non è comunque la strada indicata da Conte e Schlein che vogliono che sia la legge a indicare il valore del salario minimo.
E quindi? Come si potrebbe affrontare il tema salariale in Italia?
Credo che siano maturi i tempi per un nuovo accordo interconfederale. In questo senso, le ultime grandi intese sono quelle del 2009 e 2011. Non è seguito più nulla di rilevante un po’ per lo tsunami del caso Fiat, un po’ perché nel 2015 la deflazione rese impossibile fare accordi che governassero i salari validi per tutti. Ricordo una battuta di Carmelo Barbagallo (allora segretario generale Uil) che disse a Giorgio Squinzi (allora Presidente di Confindustria): “non vogliamo il contratto ma i contratti”. E così fu: il problema della deflazione – per cui paradossalmente i lavoratori dovevano restituire denaro agli imprenditori – trovò soluzione nel perimetro dei settori merceologici e delle federazioni di categoria. In particolare, i chimici costruirono un modello che pagava ex ante l’inflazione prevista e andava poi a verificarla; i metalmeccanici, scelsero invece di pagarla ex post, una volta nota. Questi furono i due modelli e ogni settore scelse di adottare quello più congeniale alle proprie abitudini. Oggi però le grandi confederazioni potrebbero riprendere in mano il discorso. L’inflazione continua a essere alta ed è un problema per tutti; il potere d’acquisto ne soffre e questo è un problema su cui stare molto attenti. Stupisce però che, al momento, non vi sia stata alcuna iniziativa delle Parti sociali. Dopo lo shock petrolifero del ’73, quando l’inflazione era esplosa, si erano susseguiti diversi interventi sulla spirale inflattiva – dal cosiddetto accordo Lama-Agnelli del ‘75, all’accordo dell’Eur del ’78, al lodo Scotti dell’83 fino al decreto di San Valentino varato dal governo Craxi nell’84 – che avevano introdotto elementi di stabilizzazione e che avevano successivamente portato all’abolizione della scala mobile (1992) e all’introduzione del tasso di inflazione programmata (1993). In quegli anni, per governare l’inflazione, sindacalisti e rappresentanti d’impresa non dormivano la notte. E oggi possiamo dire che i risultati ci furono, anche se lo scenario era diverso. E allora l’inflazione era il doppio di quella attuale.
Come si può dare concretezza a questo ragionamento?
Come si diceva prima, la prossima manovra finanziaria è un’occasione importante. Considerata questa situazione d’inerzia delle Parti sociali – associazioni d’impresa e sindacati – dal governo potrebbe venire un aiuto importante, proprio come 30 anni fa con il “Protocollo Ciampi”: una riconferma o un eventuale rafforzamento del taglio del cuneo fiscale potrebbe rendere più agile un terreno di trattativa per adeguare e alzare i salari, non solo quelli bassi. Perché a furia di preoccuparci solo di quelli bassi, ci accorgiamo poi che il vuoto non è lì. Inoltre, è ora di prendere atto che in Italia vi sono differenze importanti di potere d’acquisto: la paga mensile netta media (circa 1.300€) nel centro sud ha un certo valore, a Milano ne ha un altro.
E quindi, come fare?
Ovviamente non bisogna reintrodurre le “gabbie salariali” – come ha proposto il ministro Valditara per gli insegnanti – ma tenere conto di queste differenze. La contrattazione è ora che si sviluppi anche a livello territoriale. In questo modo, risponderebbe al problema della differenza del potere d’acquisto. In secondo luogo, darebbe risposta anche alla nostra capacità di distribuire ricchezza: a questo proposito, si consideri che lo scorso anno il consueto rapporto annuale del The European House Ambrosetti (si tratta del Global Attractiveness Index. Il termometro dell’attrattività di un paese) rilevava che la quota parte dei costi di produzione delle imprese italiane destinata ai salari e al lavoro dipendente è del 18,6%, valore inferiore del 6,3% rispetto alle imprese spagnole, del 7,1% alle imprese tedesche e del 8,2% rispetto a quelle francesi. Tutto questo, in una situazione di profitti in crescita: in Italia superiori dello 0,5% alla media europea, del 1,1% rispetto alla Spagna, del 3,2% rispetto alla Germania e del 7,8% rispetto alla Francia. Del resto, il nostro modello contrattuale – sostanzialmente fermo al ‘93 – non aiuta. La contrattazione di secondo livello, alla quale spetterebbe il compito di regolare la distribuzione della ricchezza prodotta, è troppo poco sviluppata. E nonostante molti tentativi per farla crescere, oggi possiamo dire che molto difficilmente uscirà dal perimetro delle imprese medio-grandi. Stiamo parlando del 5% del nostro sistema produttivo; il 95% delle nostre imprese, infatti, ha meno di 10 addetti (dati Istat): la micro- impresa, prevalentemente condotta secondo tradizioni familiari, è culturalmente lontana dalle logiche sindacali.
Cosa possiamo dire, in sintesi, a conclusione di questa nostra chiacchierata?
Che in Italia abbiamo una seria questione salariale che, se da una parte ci richiama alla necessità di rinnovare gli assetti contrattuali vigenti – per fare una battuta, potremmo dire che è l’attuale contrattazione nazionale a fungere da “gabbia” – dall’altra ci dice che abbiamo necessità e urgenza di tornare a crescere. Negli ultimi 30 anni, infatti, la crescita in Italia è stata flebile, con scarsi investimenti, poca innovazione e – di conseguenza – poca produttività, con prevalenza di posizioni ostative alle politiche infrastrutturali, industriali ed energetiche. È qui che si è determinato il blocco dei salari e, soprattutto, delle retribuzioni medio-alte. Non c’è dubbio che oggi la Transizione energetica è una grande opportunità, che peraltro ci sta vedendo dei buoni interpreti. Crescita, sviluppo sostenibile, produttività, efficienza: questa è la vera sfida presente e futura che, anche il sistema contrattuale, è chiamato a governare, soprattutto nella sua dimensione decentrata.