Da Avvenire del 20 marzo
E’ del tutto comprensibile che la tradizione del realismo politico sia sempre circondata da un alone di sospetto. L’appello a quella che Machiavelli definiva nel Principe come la «realtà effettuale della cosa» si è infatti spesso tradotto non solo nel presupposto di una conoscenza “scientifica” della politica, ma soprattutto nella legittimazione del “più forte”. E così il realismo si è frequentemente confuso con un cinismo compiaciuto, che non esita a dileggiare le comuni aspirazioni alla giustizia e a mostrare l’impotenza politica delle prescrizioni morali.
A ben vedere, però, non tutti i realisti sono davvero indifferenti alla dimensione etica. E in questo senso risulta emblematica la riflessione di Reinhold Niebuhr (1892-1971), considerato da molti come uno dei più influenti pensatori politici americani del XX secolo. Come mostra infatti Luca G. Castellin nel suo recente Il realista delle distanze. Reinhold Niebuhr e la politica internazionale, lo studioso non rinuncia affatto a considerare la dimensione etica, anche se è ben consapevole delle tensioni tra etica e politica, oltre che del rapporto problematico tra morale individuale e morale sociale. E questo atteggiamento discende soprattutto dalle premesse teologiche del suo pensiero. Come tutti i grandi realisti, anche Niebuhr procede infatti dal presupposto che per comprendere davvero la politica si debbano riconoscere gli elementi costanti della natura umana. Ma il suo “realismo cristiano” attinge ad Agostino, e cioè a una visione secondo cui gli esseri umani, nonostante vivano sotto il dominio degli impulsi naturali, sono anche animati da un’insopprimibile tensione a trascendere la natura. Negli esseri umani sono così all’opera, al tempo stesso, impulsi altruistici ed egoistici. E se il potere coercitivo è necessario per consentire l’ordine politico, non è certo uno strumento in grado di rimuovere le pulsioni che spingono al conflitto e alla ricerca del potere. Proprio su queste basi Niebuhr può allora osservare le dinamiche politiche da una prospettiva più ampia e consapevole. E per questo Castellin lo definisce, adottando una formula di Flarmery O’Cormor, come un “realista delle distanze”, capace di «vedere in primo piano le cose lontane». Ciò non vuol dire ovviamente che Niebuhr debba essere considerato come un profeta, ma significa piuttosto che lo sguardo del “realismo cristiano” gli consente sempre di cogliere l’ambiguità della politica e delle sue promesse. D’altronde Niebuhr – come scrisse Martin Wight negli armi Quaranta – può essere considerato davvero come una sorta di moderno Ezechiele. Perché, persino nei momenti in cui è più facile cedere alle seduzioni e agli entusiasmi dell’ideologia, non cessa di mettere in guardia dai rischi fatali della tracotanza e di attaccare la pretesa delle democrazie occidentali di essere gli alfieri predestinati di una causa universale di giustizia.
Di Damiano Palano
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