Il pensiero e la vita di Isaiah Berlin (1909-97) sono molto istruttivi perché ruotano intorno alle relazioni tra verità, potere e libertà. Si dà per scontato che verità e libertà vadano d’amore e d’accordo, ma non è così, e sir Isaiah lo sapeva molto bene. La verità quando è intesa come «verità della necessità» scaccia e nega la libertà e in nome del determinismo e della perfezione chi detiene il potere passa sopra a quello che Berlin, riprendendo Kant, chiamava «il legno storto dell’umanità». Se questo concetto di verità fosse reale – diceva l’autore di Libertà – non solo non avrebbe senso la nostra vita, ma non avrebbero senso nemmeno le parole del vocabolario con le quali ci sforziamo di conoscere. Berlin credeva che la conoscenza non è sempre fautrice di libertà. Ecco perché non faceva sua la famosa frase del Vangelo «conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi» e, all’inverso, si può ritenere che si ritrovasse di più nell’idea che sia la pratica della libertà a farci veri. Non c’è da stupirsi, allora, se per questo «ebreo errante», che scappò con la famiglia da Pietrogrado al tempo della Rivoluzione d’ottobre, che trovò riparo in Inghilterra e girò per il mondo alla ricerca di una casa per gli ebrei, l’origine della filosofia non è in una teoria statica, ma nella vita pratica degli uomini che per essere liberi devono appartenere a una storia o a una patria nella quale sentirsi a casa. Il tema dell’appartenenza, fino a giungere alla composizione di un «liberalismo nazionale», è la chiave di lettura che Alessandro Della Casa propone per avvicinarsi alla vita e all’opera di Berlin con un libro uscito per Rubbettino (Isaiah Berlin. La vita e il pensiero, pagg. 342, euro 18), la più completa ma, ahimè, un po’ accademica, biografia di Berlin scritta da un italiano. La ricerca si distende su tutto l’itinerario esistenziale e intellettuale di Berlin, poggiando su non poche fonti inedite e mettendo in rilievo l’importanza di alcuni eventi e incontri con le maggiori personalità del Novecento: Weizmann e Ben Gurion, Churchill e Thatcher, Eliot e Wittgenstein. Maurice Bowra disse: «Sebbene, come Nostro Signore e Socrate, non pubblichi molto, egli pensa e parla un bel po’ e ha avuto un’influenza grandissima sul nostro tempo». Cosa, questa, che non dovrebbe destare eccessiva meraviglia perché il pensiero di Berlin non nasce fra quattro mura accademiche, ma come costante risposta a quelli che Benedetto Croce chiamava «i problemi della libertà» del proprio tempo. Le sue cene a Downing Street con Margaret Thatcher avevano questo scopo: la Thatcher si fidava del giudizio del filosofo sul proprio tempo. Alla cena dell’ottobre dell’82 presso il futuro Lord Thomas of Swynnerton, vi erano anche Stephen Spender e Mario Vargas Llosa e proprio Vargas Llosa avrebbe poi ricordato che la Thatcher mostrò «rispetto e affetto» sinceri soltanto per Berlin che ricambiava con stima e simpatia pur avanzando critiche e distinguo. «Non sono mai stato tentato, nonostante la mia lunga devozione alla libertà individuale – scrisse il vichiano Berlin – di marciare con coloro che, in suo nome, rigettano l’adesione a una nazione, comunità, cultura, tradizione, lingua particolari».
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