Da Il Corriere della Sera del 7 aprile
Guerra e cinema sono andati subito d’accordo. L’operatore milanese Luca Comerio, per esempio, si era fatto legare a un biplano per riprendere i raid in Libia nel 1911. Ma quello del ’14 -’18 è stato il primo conflitto in cui il cinema ha avuto un ruolo determinante. Per documentare e, soprattutto, per creare consenso e memoria. A costo di mentire e di manipolare le immagini.
Rivedendo oggi i filmati girati durante la Prima guerra mondiale si è colpiti da due fatti contraddittori. Per raccontare le battaglie, i cineasti affinano la tecnica, inventano nuove inquadrature, usano un montaggio sempre più frenetico e coinvolgente.
Al tempo stesso sono costretti a inventare, a mettere in scena. La guerra in trincea, infatti, è poco fotogenica e poco spettacolare: non ci sono cariche di cavalleria, si combatte spesso di notte, e perdipiù si vive in mezzo al fango e alla sporcizia. Proprio per questo è controproducente mostrare immagini crude e demoralizzanti ai cittadini rimasti a casa, in ansia per i propri soldati che muoiono al fronte. Meglio quindi girare i cinegiornali di guerra lontano dalle vere trincee, con coreografie belliche più eroiche e più comprensibili dal pubblico.
All’epoca i soldati veri, quando vedevano sul grande schermo queste ricostruzioni fittizie, reagivano con rabbia. Scrive Paolo Monelli in Scarpe al sole (1921): «Al cinematografo proiettavano la battaglia per la presa di Ala. Che era qualcosa di buffo, una concezione quarantottesca, bersaglieri e trombe che suonavan l’attacco. Io espressi le mie proteste con un po’ di esuberanza. Il mio vicino mi guardò brutto e mi disse: “Scusi, se non le piace se ne vada.” “Ma caro signore, non vede che buffonata? Io che faccio la guerra, le dico che la guerra non è così”».
Come mostra Giuseppe Ghigi in un saggio recente e documentatissimo (Le ceneri del passato, Rubbettino Editore), la guerra dei finti cinegiornali ha però un effetto importante: stabilisce modi di rappresentazione, tagli di inquadratura, figure retoriche che verranno riproposti da tanti film bellici futuri: da «All’Ovest niente di nuovo» (1930) di Lewis Milestone a «Orizzonti di gloria», quarta fatica di Stanley Kubrick girata nel 1957 in Germania, perché il governo francese proibì le riprese di un film che ne criticava pesantemente l’esercito.
Per esempio, la carrellata che mostra le trincee dall’alto. O la macchina da presa che segue i soldati che vanno ad affrontare il fuoco nemico. È un paradosso: i film pacifisti, che vogliono denunciare l’inutile carneficina, usano un’iconografia che affonda le radici nel cinema di propaganda. Forse solo Ermanno Olmi, in «Torneranno i prati» (2014), ha raccontato le trincee scollandosi da questa tradizione.
Poi, certo, c’erano anche gli operatori che andavano davvero al fronte e riprendevano morte e dolore in presa diretta. Soltanto che il più delle volte le loro pellicole rimanevano nel cassetto. In anni recenti Yervant Gianikian e Angela Ricci-Lucchi hanno lavorato su queste immagini rimosse, che hanno recuperato, ricolorato, portandone alla luce tutto l’orrore: e hanno realizzato una «Trilogia della guerra» che parte dai campi di prigionia e arriva alle vittime sfigurate e rappezzate di «Oh! Uomo!» (2004).
C’è anche un’altra opzione: quella del comico. Dal riso anarchico di «Charlot soldato» (1918), passando per Stanlio e Ollio, si arriva a «La Grande guerra» (1959) di Monicelli e (si parva licet) al recente «Soldato semplice» di Paolo Cevoli. La tragedia non è rimossa: ma la commedia esprime l’insopprimibile voglia di vivere, alla faccia di bandiere e gerarchie.
di Alberto Pezzotta
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