Sulla superficie di questo romanzo c’è la storia di una donna che cresce nell’estremo Sud, studia alla Cattolica a Milano e diventa giornalista perché le piace raccontare le vite della gente. Il racconto della vita di questa donna è però quasi un pretesto per incidere con un coltello affilato un solco profondo tra uomini e donne, tra due modi di vivere il mondo, tra due visioni che difficilmente in Corpo Estraneo (Rubbettino, 2017) trovano una pur minima sintesi. Annarosa Macrì ha scritto un romanzo femmina, dove gli uomini sono corpi estranei, incapaci di sincronizzare le loro vite con quelle delle donne. Un romanzo in cui i maschi non hanno scampo, sono costretti in un angolo e per loro non c’è redenzione. Ogni capitolo ha il nome di una donna, tranne il primo intitolato ad un medico il cui nome evoca un poeta, il professor Leopardi. Un medico che, dovendo curare Bianca, la protagonista, la esamina, l’analizza, la scruta anche all’interno con un sondino, senza avvertire quello che lei realmente sente, senza comprendere quanto lei si senta lontano da quel corpo che il medico deve e vuole curare.
Bianca è una ragazzina studiosa, un’universitaria secchiona che arriva alla Cattolica per studiare e finisce per trovarsi coinvolta nel ’68 milanese. Una giovane donna che vede i costumi sociali cambiare e che si trova a suo agio soltanto con le sue amiche. Bianca prova sempre a lasciare il suo uomo, vuole lasciare tutti gli uomini. Anche dopo essersi sposata, sente che il marito diventa per lei un corpo estraneo, anche il figlio che porta nel suo grembo, a volte, le sembra un corpo estraneo. L’unico uomo che ama, con il quale si sente pacificata, è suo padre, il quale muore quando lei è ancora ragazza e le lascia in eredità la grande passione del giornalismo.
Come quasi tutti i romanzi, anche questo è una scusa, neanche tanto nascosta, di raccontare le cose importanti della propria vita. La storia di una donna che fa i conti con gli uomini che ha incontrato nella sua esistenza. Tutti egoisti, ingombranti, silenziosi quando c’è da parlare e spendaccioni quando c’è da risparmiare. A volte nella narrazione di Annarosa Macrì, l’estraneità umana si unisce a quella geografica. Non soltanto i corpi sono estranei, sono estranei a Bianca anche i luoghi. Lei che lascia l’estremo Sud e arriva a Milano nel pensionato dell’Università Cattolica dove trova donne solidali ma anche tanta solitudine. Lei che si sente un piccolo corpo estraneo anche nella grande casa dei conti milanesi Grandi Rebecchi. Quando deve fare la “signorina” per il piccolo conte che deve accudire in un mondo ottocentesco, dove la pronuncia non perfetta di una vocale è sufficiente a farle perdere il lavoro.
All’interno del romanzo ci sono anche delle (apparentemente) piccole descrizioni che aprono squarci di vita illuminanti, come il racconto di Leopoldo Trieste che segue di nascosto Salvatore Quasimodo per le strade di Reggio Calabria e, in un giorno di pioggia, scopre che anche i poeti sono costretti ad usare l’ombrello quando piove. Come il racconto di un giovanissimo e tracagnotto Armando Verdiglione, collega di studi della protagonista a Milano, negli anni in cui non era ancora diventato l’allievo di Lacan e lo psicoterapeuta della Milano bene.
Un altro momento arioso del romanzo è il racconto del ’68 visto dall’interno della Cattolica, in una Milano travolta dalle occupazioni studentesche (“falce e martello, borghesi al macello”). Di Piazza Fontana con le sirene delle ambulanze che sono ferite lancinanti nelle orecchie di Bianca. Di Giorgio Bocca, giovane e bello, sempre presente nelle assemblee studentesche. Dei suoi appunti illeggibili che servivano a raccontare la protesta. Di Mario Capanna studente modello di filosofia, ospite del cattolicissimo Collegio Augustinianum, dal quale viene espulso quando diventa uno dei leader del movimento.
Insieme a queste vicende storiche, il romanzo evoca anche una teoria della solitudine. Non ci sono soltanto corpi estranei nella vita di Bianca. Il suo stesso corpo è estraneo ai suoi pensieri, a lei stessa. Bianca è una crisalide in un bozzolo in cui vive con disagio, che rifiuta. Il libro racconta anche di quando Bianca scopre di essersi ammalata e vive la malattia come vive gli altri dolori della vita, con lo stesso fastidio di quando si scoprono i parassiti su una pianta. Bianca rifiuta il suo corpo e rifiuta anche il male nel suo corpo. È costretta a malincuore a curarsi, ma sente la malattia come qualcosa di estraneo al suo essere, fuori dal suo orizzonte mentale. Ignora la malattia pensando ad altro, al suo lavoro di giornalista, alla passione del raccontare la vita degli altri, meglio se gli altri sono donne, come le badanti polacche con le quali fa un lungo viaggio fino a Lublino.
La questione più urgente che pone Corpo Estraneo è il difficile rapporto tra donne e uomini, che l’autrice illumina da un punto di osservazione femminile lasciando agli uomini piccoli ed angusti spazi di manovra. I tempi che viviamo registrano grandi trasformazioni nel rapporto tra i generi. Le cristallizzazioni di potere maschile si stanno sciogliendo sempre più velocemente e mentre le donne nel nostro tempo riempiono spazi sempre più grandi e prima negati, i rapporti si fanno più articolati e, soprattutto per gli uomini, la vita e le relazioni diventano sempre più complesse. Bianca su questa questione ha le idee abbastanza chiare e il romanzo della sua vita le narra con un linguaggio duro, onesto, facendo sentire al lettore la tensione e la passione di una donna ostinata e sincera, anche nelle piccole cose, perché come lei dice ad una delle sue tante amiche: “Tutto merita di essere raccontato, non ci sono vite banali, tutte le vite sono uniche se le guardi da vicino”.
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