L'”Uomo Indifferenziato” di Michele Silenzi (Rubbettino Editore) è vittima di un sistema che egli stesso ha creato, sospinto e annullato dalle onde dell’iper-egalitarismo, e del relativismo assoluto che a nulla crede.
È caratteristico delle epoche di decadenza confondere ed equiparare il logico e l’irragionevole: così, quando Michele Silenzi nota con acutezza che “la civiltà è differenza”, ribadisce un concetto evidente ma – nostro malgrado – non più ovvio. Tracciando un percorso critico-filosofico che muove dal primo uomo hegeliano per giungere all’ultimo uomo nicciano, l’autore confronta la volontà di riconoscimento del primo, oggi sopita, e l’inanità morale e spirituale del secondo, condizione nostra contemporanea. Se l’uomo animato da thumos è sempre stato il principale attore della storia, oggi un egalitarismo esacerbato, il rigetto delle differenze di ogni tipo e la nichilizzazione del polemos hanno ridotto il divenire storico, ormai interamente coincidente con il progresso, ad un “processo senza soggetto” in cui l’uomo, nella condizione postumana di essere generico sociale, è vittima dei sistemi che egli stesso ha posto in essere, inconsapevole oggetto di una tensione omologante che non conosce fine (nella duplice accezione di termine e obiettivo). L’approdo naturale dell’egalitarismo forzato è, secondo l’autore, un’epoca “di puro conflitto senza oggetto, senza possibilità di risoluzione se non quella che potrebbe derivare da un’indifferenziazione ultra-egalitaria, quindi mortifera”.
I presupposti strutturali di tale mutazione sono individuati dall’autore in tre direttrici fondamentali: rifiuto delle diseguaglianze di ogni ordine e grado, cultura gender, dibattito sul cambiamento climatico generato dall’uomo. Una sorta di trinità atea mistica meccanica, tre linee teoretiche e politiche capaci di generare, nelle parole di Friedrich Von Hayek, un “potere spirituale coercitivo” che si realizza nel sistema liberal-democratico e diviene totalizzante, dal punto di vista politico, grazie ad una simbiosi sventurata tra il sistema socialista e quello liberalista. Del primo, il potere sfrutta la possibilità di massificazione uniformante, del secondo la capacità di “produzione e somministrazione di libertà”: ciò che ne risulta è un “economicismo radicale” che “diviene l’unico legittimo e accettabile orizzonte di significato per ogni azione”. Il potere necessita infatti di un “regime di verità” arbitrario, capace di legittimarsi a partire da un’idea viziata di eguaglianza che non riguarda la dignità della persona ma è uguaglianza biopolitica, oggettivazione che mira a controllare l’individuo e i suoi caratteri, per poi razionalizzarli e massimizzarli secondo la logica tutta economica dell’efficientismo. Difatti, si legge in un passaggio di notevole finezza, “l’uomo contemporaneo, complesso e sofisticato, se da un lato vuole dare libero sfogo ai suoi sentimenti ed essere riconosciuto per i suoi sentimenti e per la sua (in)capacità di soffrire, dall’altro vuole essere amministrato come un complesso homo oeconomicus beckeriano”.
Compiuti fino al parossismo gli ideali delle rivoluzioni francese ed americana, l’uomo indifferenziato non ha desideri che non siano appetiti materialistici, pratiche confessionali oltre al culto del benessere: la leopardiana strage delle illusioni coincide con la fine della storia e la “perversione della ragione che non ragiona ma desidera” riduce il mondo, ancora con Leopardi, ad un “serraglio di disperati”. Così l’autore mette in risalto pure le isterie, le ansie, i disturbi da stress tipici del nostro tempo, con le inquietudini prontamente diagnosticate e anestetizzate in quel contesto di “eudaimonismo sociale” che tutto deve lenire poiché “non esiste più un orizzonte in cui la sofferenza possano avere un significato che vada oltre”. Abolite le differenze, annullato l’equilibrio positivo tra opposti, resta dell’umanità una congerie agonizzante in cui ciò che è relativo viene assolutizzato, ciò che è assoluto relativizzato e tutto, indifferenziato, si dissolve.