Vito Teti, alcuni anni fa, ha ideato una collana, presso l’editore Rubbettino, dal titolo “che ci faccio qui”. Il qui a cui fa riferimento resta indefinito. Per tanti versi, viene da pensare che si alluda alla terra di Teti, che è poi anche quella dell’editore, la Calabria. Questa ipotesi sembrerebbe essere avvalorata da uno degli ultimi titoli che vi sono apparsi: La mano bruciata di Jonny Costantino, a sua volta calabrese, profondamente legato alla sua terra, sulla quale ha realizzato un cortometraggio esemplare (“Le Corbusier in Calabria”, 2009). Eppure, sfogliando il libro di Costantino si è più propensi a rileggere quell’avverbio come il più ampio possibile, come esteso oltre uno spazio specifico e, se possibile, anche oltre un’epoca determinata. Costantino intesse, infatti, la trama di una scena dell’anima, di un’anima carnale, i cui attori sono scrittori e pittori provenienti dai più svariati luoghi e tempi. Tutti, però, sono egualmente vivi nella sua scrittura. A tutti, in qualche modo, dà del tu, in nome di un’elezione e di una comunione in cui lo spazio dell’opera, continuamente, sconfina in quello della vita, in quell’unico flusso che Costantino chiama vitarte . Il qui diventa, in questo modo, quasi lo spazio di un’utopia, di una terra dei figli (in cui la nozione di padre diventa obsoleta, se non retrograda), una Kinder Land, ancora mai davvero scoperta, e di nietzscheana memoria. Si tratta, come ha recentemente notato Antonio Moresco, di una costellazione che Costantino indica per far segno verso una pratica del gesto artistico, nel suo più ampio significato. È una pratica – quella del pensiero, della scrittura, delle arti tutte – che si fa insieme, in una sorta di comunione senza chiese possibili, in una serie ininterrotta di riprese e di rimandi all’interno della comunità di coloro che non hanno comunità. Di volta in volta, l’autore intraprende, così, un dialogo o, meglio, un corpo a corpo, spesso serrato, a volte sofferto, con Lispector, Bernhard, Kristof, Ceronetti, Bolaño, Moresco, Ivano Ferrari, Brancale, Flaubert, Bachmann, Samorì, Mattotti, de Marco e, infine, Marlene Dumas (di quest’ultimo qui proponiamo uno stralcio).
Costantino ha il pregio di riportare la scrittura e l’arte alla loro dimensione primaria, alla fonte di quel coacervo di passioni, spesso torbide, da cui prende forma, attraverso il lavoro sulla lingua, uno stile, una figura. Gli esiti sono, assai sovente, distanti dalla postura di chi qui lo presenta. Distante è la fascinazione di Costantino per l’eccesso, anche linguistico, per un “parlato” céliniano, per una visceralità fin troppo esposta. Ma questa distanza non impedisce una prossimità che si esprime come una marcata allergia all’asfittico conformismo accademico di buona parte della saggistica odierna, nella quale, alla fine, si percepisce solo esibizione sterile e solipsistica di erudizione. In fondo, l’”io” di Costantino, il suo indirizzarsi in prima persona, la sua scurrilità adolescenziale, il suo richiamo all’impossibilità di occludere i vasi comunicanti tra vita e arte, la sua parola portatrice anche di dolcezza disarmata, dicono molto più dell’altro di quanto il presunto soggetto universale del sapere, che guiderebbe il discorso critico corrente, vorrebbe farci credere abolendo l’”Io”. Costantino rifiuta un sapere mondato dall’inestricabile rapporto vita/arte, io/noi, biografia/storia; detto altrimenti, rifiuta un sapere scollato dal tutto. Costantino chiede tutto, vuole tutto, dall’arte e dalla vita; non lo nasconde e non si nasconde. Si mostra, con onestà e senza finzioni, esponendosi al proprio limite. A me, pare già molto. Per questo, dall’altra sponda del tempo, ma proprio qui, in questo preciso momento e in questa terra di figli, credo possa valere la pena ascoltarlo con attenzione.