Gianni Vattimo, Carmelo Dotolo
Dio: la possibilità buonaUn colloquio sulla soglia tra filosofia e teologia a cura di
a cura di Giovanni Giorgio
Dal Giornale di Filosofia della ReligioneÂ
«Dio: la possibilità buona» è il titolo di un libro da Lei curato che presenta un vivace confronto tra il filosofo Gianni Vattimo e il teologo Carmelo Dotolo. La formula — senz’altro efficace e aderente alla sensibilità postmoderna — esprime un presupposto condiviso dai suoi interlocutori?
Sì, sia pure con diverse accezioni. Per Gianni Vattimo Dio resta in una prospettiva orizzontale, rappresenta l’oltre della storia attuale, comunque nella storia. Dio è la forma di ogni progetto di emancipazione per una umanità storica precisa, progetto che, perciò, di volta in volta assumerà diversi profili. E forse questo che dico, per Vattimo, potrebbe rappresentare già una interpretazione troppo ‘metafisica’, poiché già indicherebbe una qualche ‘struttura’ formale del divenire… ma insomma, per capirci può andare bene. Da parte sua Carmelo Dotolo considera Dio come possibilità buona verticale rispetto alla storia. Dio rimane per sempre l’oltre per la storia. Assumendo Dio in prospettiva escatologica, Dio rimane il grimaldello costante per ogni acquiescenza acritica al presente. Egli è la verità (ma su questa parola sarebbe il caso di dire qualcosa di più) a partire dalla quale porsi nei riguardi di ogni ‘metafisica’ che volesse porsi come definitiva, considerandola… umana, troppo umana. Ogni progetto di umanità che volesse porsi come sacro e intoccabile — oggi ‘il mercato’ — costituirebbe una ‘metafisica’ o, per dirla con Marx, una ideologia che serve solo per chi comanda a perpetuare il suo potere, costi quel che costi. Cristianamente parleremmo di idolatria.
Muovendo dalla convinzione che la stagione della metafisica sia chiusa, Lei afferma che «insistere su posizioni metafisiche ateistiche e materialistiche che si affannano a voler dimostrare razionalmente che Dio non esiste o su posizioni teistiche e spiritualistiche che si affannano a voler dimostrare razionalmente che Dio esiste, significa combattere battaglie di retroguardia». Oggi i credenti dovrebbero quindi imparare a fare a meno delle prove classiche a favore dell’esistenza di Dio, compreso il contemporaneo Intelligent Design che a quelle in fondo rimanda? San Tommaso è forse divenuto inattuale? Come difendere la propria fede dismettendo le risorse dell’apologetica tradizionale quando sempre meno raramente sentiamo proclamare addirittura che Dio non è neanche un’ipotesi?
Tralascio l’Intelligent Design e prendo più sul serio le vie di Tommaso d’Aquino. Assumo come premesse di questa mia risposta le parole dell’allora Card. Ratzinger, il quale sosteneva, riguardo al rapporto tra ragione e fede, come: «il razionalismo neoscolastico sia fallito nel suo tentativo di voler ricostruire i praeambula fidei con una ragione rigorosamente indipendente dalla fede, con una certezza puramente razionale» (J. Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, pp. 141-142). Anche K. Rahner ha sostenuto, più in generale, che dopo l’epoca che va da Pio IX a Pio XII, l’epoca della tipica neoscolastica latina, «la filosofia e la teologia neoscolastica, pur avendo al proprio attivo tante benemerenze, oggi [dopo il Concilio Vaticano II] sia in qualche modo giunta alla fine» (K. Rahner, La fatica di credere, a colloquio con Meinold Krauss, Paoline, Cinisello Balsamo 1986, p. 98). Posto che una ragione forte che voglia ‘dimostrare’ l’esistenza di Dio al di fuori della fede sia improponibile, credo tuttavia che le viae di Tommaso non debbano essere buttate alle ortiche. Per quanto capisco possono essere rilette come precomprensione ordinaria di ciò che omnes dicunt Deum. La fenomenologia della religione ha documentato tutto questo. Detto altrimenti, quando si parla di Dio, fuori della proposta cristiana, Dio ci se lo figura più o meno come ce lo raccontano (anche) le cinque vie di Tommaso. E questo fino alla deriva di un onnipotente ‘tappabuchi’, per dirla con Bonhöffer. Bene, la proposta cristiana si innesta su questa precomprensione per scardinarla dall’interno, avviando una conversione verso il Dio di Gesù Cristo, che ci chiama alla responsabilità storica per l’avvento del Regno. Si tratta di passare dall’idea che Gesù abbia il volto di Dio all’idea che Dio ha il volto di Gesù. E non è poco!
Il pensiero odierno ha visto tramontare le immagini forti della ragione. È venuta meno cioè l’idea di una ragione unica e assoluta, capace di affermazioni universali e di univoche interpretazioni della realtà. Prevale, e non soltanto in filosofia, la persuasione che il tempo delle verità totali e definitive è ormai finito. A tal proposito Lei scrive che «il cammino critico del pensiero del Novecento, erodendo ogni pretesa assoluta della ragione moderna, ha risposto con chiarezza che “l’ideale di una ragione assoluta non costituisce una possibilità per l’umanità storica” [Gadamer]»; e rileva «la consonanza, in questo senso, dell’ermeneutica con la filosofia della scienza del XX secolo». Ebbene, dalla sua prospettiva, per la religione e per la fede cristiana in particolare la condizione postmoderna rappresenta una minaccia passeggera oppure una sfida necessaria?
A me sembra che la ‘ubriacatura postmoderna’, come qualcuno l’ha chiamata, stia oramai tramontando. Pur contro i nobili desideri di emancipazione dalle varie ‘metafisiche’ ideologicamente orientate a destra e a sinistra, il postmoderno ha dato la stura a derive di senso che, alla fine, nella moltiplicazione delle differenze di prospettive sulle cose, ha ratificato l’indifferenza delle differenze. Si tratta di un naufragio! In questa sostanziale equivalenza universale in cui si è quasi perso ogni criterio per distinguere il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, il bello dal brutto abbiamo assistito a due processi concomitanti. Dall’un lato ognuno è stato rimandato a se stesso come arbitro del valore, arrivando ad una atomizzazione etica di massa: ognuno la pensa come gli pare, formando piccole ‘tribù etiche’ nel cyberspazio. Questo è il lato privato della vita delle persone, in cui l’emotivismo etico, articolato anche come ‘etica dell’autenticità’ è dominante. Dall’altro la vita sociale — che pure deve trovare qualche orientamento ora che i metaracconti della Modernità sono decaduti — ha trovato nel valore utilità il suo faro. L’economicità è ciò che organizza utilitaristicamente la vita pubblica delle persone, con la sua razionalità strategica che sta colonizzando (per dirla con Habermas) gli spazi di una razionalità comunicativa volta alla formazione del consenso intorno a progetti, valori, fini.
Ciò che ci sta svegliando da questo sonno dogmatico in cui il nuovo ‘sacro’ è costituito dalla inviolabilità del ‘secondo me/noi’, dal lato del privato, e dalla inviolabilità de ‘i mercati’, dal lato del pubblico, sono i frutti di palese degrado, dal lato del privato, e di palese ingiustizia, dal lato del pubblico. Siamo in un tempo di decadenza. E purtroppo mancano profeti che abbiano capacità di visione e indichino la direzione verso cui andare. Ci arrabattiamo nell’amministrazione del presente. Poiché questo è il mondo che ci tocca abitare, come cristiani, siamo chiamati ad assumere le sfide che emergono dal quadro qui molto rozzamente presentato. Papa Francesco sta offrendo una strada demitizzando la figura del pontefice. Non più un ‘cristianesimo metafisico’ e sacrale, che guarda dall’alto in basso le persone, ma un ‘cristianesimo secolare’, prossimo alle vite, e capace di lotta sociale. Un cristianesimo del genere, se opportunamente rafforzato da una organizzazione rinnovata, sarebbe capace di ripresentarsi sulla scena con credibilità, offrendo speranza e coagulando energie buone in un progetto di mondo condivisibile anche da diversamente credenti e non credenti. Le strade di un cristianesimo sacrale sono oramai moneta fuori corso.
A tal proposito, venendo più in generale alla questione della verità lasciata più sopra in sospeso, mi pare che si possa dire questo: se la fede non arrivasse ad essere comprensione e progetto del mondo e dell’uomo che ci vive dentro, semplicemente non sarebbe una fede autentica, poiché sarebbe astratta o disincarnata. Sarebbe una patologia alienante, lontana dalla logica dell’incarnazione. In questo senso mi pare che parlare di una ‘verità assoluta’ della fede non sia scevro da qualche problema, poiché si corre il rischio di scambiare la trascendenza di Dio per una sua assenza dal mondo. Se, come ritengo, solo una fede relativa al mondo storico in cui un’umanità storica vive è una fede capace di dire qualcosa di significativo, ritengo sia più pertinente usare il sintagma di ‘verità onnitemporale’. In tal senso il principio ecumenico della «gerarchia nelle verità della dottrina cattolica» (Unitatis redintegratio, 11) potrebbe trovare una lettura allargata e più completa, nel senso della significatività storica. Detto altrimenti: per essere «spinti verso una più profonda conoscenza e una più chiara manifestazione delle insondabili ricchezze di Cristo» (ibidem) nel dialogo con credenti, diversamente credenti e non credenti all’interno di uno stesso mondo — questo! — potrebbe non valere il solo criterio statico della gerarchia nelle verità, misurata dal diverso nesso con il fondamento della fede cristiana, ma anche il criterio dinamico di una gerarchia nelle verità, misurata dal diverso nesso con la realtà storica che di volta in volta la rivelazione cristiana è chiamata ad illuminare. Sicché aspetti che in un’epoca storica erano sembrati marginali o trascurabili, in un’altra epoca storica assumono una più rilevante significatività e viceversa. Coniugati assieme il criterio statico e il criterio dinamico potrebbero concorrere a trovare ogni volta di nuovo la forma storica di un cristianesimo che renda possibile un incontro salvifico tra il Dio di Gesù Cristo e uomini storicamente determinati.
Lungi dal ravvisare nella secolarizzazione moderna e contemporanea un fenomeno anticristiano, sia Vattimo che Dotolo la intendono anzi come frutto maturo e coerente del cristianesimo. Sta qui peraltro il punto di convergenza dal quale si avvia il loro confronto. Da filosofo e teologo ci può spiegare il senso di questa ‘lettura’ contro corrente?
Vorrei precisare che non sono né filosofo né teologo. È più corretto dire che mi occupo di filosofia con un occhio rivolto alla teologia. La secolarizzazione non significa nient’altro, se non che l’uomo si svincola dai campioni di comportamento e dalle categorie di pensiero religiose e metafisiche e si abitua ad orientarsi secondo le norme proprie immanenti dei diversi ambiti della realtà. Lo svincolo non implica, tuttavia, la crisi del cristianesimo in quanto tale, quanto piuttosto la crisi di un ‘cristianesimo metafisico’, frutto di un eccesso di ellenizzazione. Se si guarda più attentamente, infatti, ci si potrà rendere conto come la modernità non rappresenti una cesura, quanto una prosecuzione della tradizione ebraico-cristiana in veste desacralizzata, poiché è proprio in essa che la modernità trova le sue condizioni di possibilità. È l’eredità biblica che pensa l’uomo come essere della libertà (in quanto soggetto di un rapporto di partnership con Dio), ed è l’eredità biblica che pensa l’uomo come autonomo nella progettazione di un mondo sgombrato da ogni presenza numinosa, e quindi disponibile per l’azione modellante dell’uomo. L’immagine del mondo che ci consegna la modernità vede il mondo non più configurato in un ordine dato, ma colto come termine dell’azione umana che lo configura e lo trasforma. Da parte sua l’uomo, compreso come soggetto autonomo ed emancipato rispetto ad ogni tutela divina che lo costringa in un perpetuo stato di minorità, si avverte come capace protagonista di una storia di progresso che punta verso una pienezza di emancipazione (secondo l’enciclopedia illuminista) e di consapevolezza (secondo l’enciclopedia idealista). La sintesi di queste due prospettive sarà trovata nel marxismo. In questa nuova immagine del mondo il ‘cristianesimo metafisico’ ereditato dalle passate stagioni, viene avvertito sempre più come autoritario pregiudizio mirante alla giustificazione dell’esistente: esso costituisce lo sfondo per l’organizzazione politica ed etica della società in corrispondenza alle idee metafisiche e teologiche. Esso impedisce lo sviluppo di quella libertà che diventa il tema dominante della modernità, alla luce della quale anche il concetto di verità perde i suoi connotati di corrispondenza ad un ordine dato, per essere vieppiù identificata con la rilevanza, nel senso che è vero ciò che è rilevante per ogni soggetto, dando alla ragione pratica un primato storicamente determinante. Per questi motivi la secolarizzazione è da leggere come l’ultimo frutto del cristianesimo e non come la sua negazione, anche se questa non è la tesi dominante.
Lei è segretario della SIRT – Società Italiana per la Ricerca Teologica. Ma la teologia non è una scienza in senso stretto. Anzi, per alcuni non dovrebbe avere cittadinanza tra i discorsi razionali possibili.
Questa è una vecchia questione. Dopo il Novecento anche le scienze più dure sono diventate più modeste, sempre più consapevoli dei vincoli all’interno dei quali la conoscenza si muove. Una volta le scienze cercavano essenze, poi, dopo Galilei, cercarono leggi, oggi cercano ipotesi. La distanza tra scienze naturali e scienze umane, almeno da un punto di vista epistemologico, si è accorciata e oggi, nella diversità dei metodi, ogni disciplina può essere fatta con il rigore che le è proprio e che non può essere mutuato da altri saperi. In tal senso anche la teologia può essere qualificata come scienza qualora non si adotti un paradigma ‘scientista’.
La sua densa introduzione al libro citato sopra si chiude con questa considerazione: «Gesù Cristo, nella sua singolarità, rimane per filosofia e teologia, e non solo, un grande stimolatore del pensiero, qualcuno che dà ancora e sempre di più da pensare». Difficile negarlo. Ciò però ci riporta al problema — sempre aperto — dei rapporti tra filosofia e teologia. Secondo Lei è più salutare per entrambe una separazione netta oppure una libera contaminazione?
Mi pare che una libera contaminazione sia decisamente più produttiva di risultati da entrambi i lati.
La fede, il dubbio e la loro «parte migliore» (Lc 10,42).
Ho sempre diffidato di una fede che non abbia dubbi, che cioè non sia capace di domanda e di critica su se stessa. Quando non c’è critica cadiamo nell’ideologia e nell’idolatria. Siamo troppo sicuri di noi stessi. Chi non ha dubbi e non domanda, vive in un mondo piatto senza la meraviglia che producono fatti che meritano la nostra attenzione, la nostra passione e la nostra fatica di capire. Le pare che Dio sia un fatto che non merita di essere interrogato? Dio è ciò di cui non si può pensare qualcosa di più grande. Chi non volesse misurarsi con questa grandezza (comunque si risponda!), resta un uomo dimezzato. E questo, per molti versi, mi pare indice di alienazione.
a cura di Michele Turrisi
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