Da Avvenire del 25 ottobre
Il modello di Stato laico sembra sempre più messo in crisi da una società che, al di là delle apparenze, è tendenzialmente esposta a prevaricazioni ideologiche e a limitazioni tecnologiche della libertà delle persone. Eppure intorno al principio di laicità si sono costruite le democrazie occidentali che continuano a essere il metodo di governo più evoluto e garantista della libertà degli individui che sia mai stato attuato. E allora ecco sorgere di giorno in giorno più urgente la necessità di ridefinire il significato di laicità e di liberalismo, perché, sostiene Santi Calderone, «una laicità incapace di rinnovarsi nega se stessa, fossilizza e muore».
Insomma, non si può più essere laici con gli armamentari ideologici di ‘800 e ‘900, tanto più in Italia dove detti armamentari si sono sempre ammantati di un malcelato anticlericalismo. Le urgenze della modernità sollecitano al cambiamento anche chi della modernità ha storicamente fatto il suo vessillo. È la tesi che ha animato un dibattito sul libro di Santi Calderone, docente di Storia della filosofia moderna all’Istituto superiore di Scienze religiose di Messina, La libertà degli altri. Sulle tracce di Arturo Carlo Jemolo (Rubbettino). Dibattito che non a caso si è tenuto presso la sede romana della Fondazione Einaudi e ha visto confrontarsi, oltre all’autore, due insigni giuristi: Francesco Margiotta Broglio, esperto di rapporti fra Stato e Chiesa e Luigi D’Andrea, costituzionalista dell’Università di Messina.
Oggi più che mai, ha sottolineato D’Andrea, il cattolicesimo e la tradizione laica liberale «sono chiamati a dialogare» in nome di quella «libertà degli altri che il Vangelo si premura di garantire attraverso la primaria indicazione della dignità dell’individuo». Secondo il costituzionalista sia al cattolicesimo che al liberalismo appartengono «due spinte essenziali: l’attitudine a separare e garantire i diritti di ciascuno di fronte al potere, così come la fede di fronte allo Stato; l’attitudine a fare in modo che questi ambiti distinti siano messi in condizioni di dialogare. E questo è in estrema sintesi l’insegnamento di Jemolo».
Dire che si tratti di cose manifestatesi solo a tratti dall’unità d’Italia in poi è fin troppo facile, ma allo stesso tempo non si può negare che la Chiesa abbia da decenni intrapreso la strada del dialogo. Esempio evidente, per D’Andrea, è il dibattito fra Benedetto XVI e il filosofo ateo Jiirgen Habermas, convinto il secondo che fra fede e ragione ci debba essere «dialogo e alleanza», convinto il primo che debbano imparare «l’apprendimento reciproco» delle loro posizioni.
In questo, secondo Margiotta Broglio, Jemolo (storico, giornalista, avvocato, docente di diritto ecclesiastico) può essere un esempio, lui che era il più laico fra i cattolici e il più cattolico fra i laici, «profondamente liberale eppure amico di personaggi come Ernesto Buonaiuti e Francesco Ruffini, lontanissimi dalle sue posizioni». Lui che professava una laicità dello Stato a tratti utopica, ma sempre inattaccabile sul piano della dottrina cattolica. Lui che nel ’31, come quasi tutti i docenti universitari, aveva giurato fedeltà al partito fascista, ma che non aveva esitato a tenere nascosta nella sua casa di Roma una famiglia di ebrei, gesto che gli valse il riconoscimento di Giusto fra le nazioni della Yad Vashem. Lui che «fu il primo presidente della Rai del dopoguerra, ideò e partecipò più volte al primo tali (show radiofonico, Al convegno dei cinque, in cui il critico letterario Silvio D’Amico faceva da moderatore al confronto fra più personalità della cultura, della politica, della società). Lui che, ha annotato Santi Calderone, «in epoca preconciliare difendeva la libertà dei pastori protestanti in Italia; era amico di Giovan Battista Montini; non era in sintonia con i socialisti, ma fu indicato da Nenni come esperto della Costituente».
di Roberto I. Zanini
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Dibattito. Nel segno di Jemolo una nuova modernità che unisca laici e cattolici
di Roberto I. Zanini