Da Storia in rete di aprile
Tutto si può dire della Buonanima, tranne che non fosse un grande giornalista. Una conferma ci viene offerta dalla ripubblicazione, curata da Alessandro Campi, con il titolo «Giornale di guerra», delle pagine scritte da Mussolini durante i diciotto mesi (settembre 1915-febbraio 1917) passati al fronte nella Grande Guerra e comparse sul «Popolo d’Italia». Ma come c’era finito il socialista rivoluzionario della Settimana rossa, il direttore incendiario dell’«Avanti!», nelle trincee del Carso? Ancora il 25 luglio del 1914 sul quotidiano socialista da lui diretto pubblica un articolo di fuoco contro la guerra e due giorni dopo, in una riunione dei deputati socialisti, propone una insurrezione popolare in caso di guerra al fianco della Triplice, che resta la sua bestia nera. L’invasione del Belgio da parte della Germania e il fallimento dell’Internazionale socialista incrinano molte certezze socialiste e nel mese di agosto si diffondono i primi dubbi sulla linea della neutralità assoluta, che Mussolini condivide e partecipa ad alcuni compagni. Il 18 ottobre pubblica sull’«Avanti!» il famoso articolo, bocciato dalla Direzione del PSI, «Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante», in cui chiede una maggiore flessibilità politica dei socialisti di fronte all’evoluzione degli avvenimenti europei. Si dimette quindi da direttore del giornale e un mese dopo, il 15 novembre, fonda il «Popolo d’Italia», che svolgerà un ruolo di primo piano nella campagna a favore dell’intervento dei mesi successivi. Pochi giorni dopo viene espulso dal PSI, ma continua a dichiararsi socialista, anche se il suo socialismo non ha niente a che vedere (e a ben vedere non ha mai avuto niente a che vedere) con il gradualismo riformista o con il massimalismo verboso della tradizione socialista. È un socialismo di movimento e di rottura del vecchio ordine, che vede nella guerra una occasione unica per portare le masse, guidate dalle elite e dalle avanguardie, culturali e politiche, sulla scena della storia. È questa la strada che, per coerenza, lo porta come bersagliere nelle trincee, dove scrivere le impressioni a caldo sul conflitto è per lui il modo più naturale per proseguire i dialogo con quanti lo hanno sostenuto nella battaglia per l’intervento. Ma risponde anche a un bisogno più profondo per un uomo che identifica scrittura e vita. Si tratta di quindici pezzi, intervallati da lunghi silenzi per licenze o convalescenze, che possono essere divisi in tre blocchi: da settembre a novembre del 1915 (quando è destinato sull’Alto lsonzo), da febbraio a maggio del 1916 in Carnia, e infine da novembre del 1916 a febbraio del 1917 sul Carso. Qui viene ferito in una esercitazione e si interrompe la sua esperienza al fronte, dal quale viene congedato con il grado di sergente. La sua domanda per il corso ufficiali era stata respinta fin dall’inizio per i suoi precedenti «sovversivi». Ma il suo commento nel diario era stato lapidario: «Non domando perché. La notizia non mi sorprende e non mi addolora». Qualche critico ha voluto leggere in questi scritti un manifesto per preparare il futuro politico del dittatore degli anni successivi. Ma questa lettura, come osserva giustamente Campi nella sua introduzione, che si presenta come un vero saggio storico su tutta la vicenda, è frutto di una distorsione alla luce degli avvenimenti successivi. Il Mussolini di quei mesi è un leader con scarso seguito, che è uscito dalla «casa madre» e non sa che futuro lo attende. Tutto questo risulta con chiarezza anche dalle caratteristiche di queste pagine: asciutte, scarne, prive di retorica, prese in diretta dal fronte. E proprio queste caratteristiche, sempre secondo Campi, spiegano perché, questo testo, che costituisce una delle migliori testimonianze sul periodo, sia stato scarsamente utilizzato dagli studiosi, sia in passato che in occasione di questo anniversario del conflitto. Pochi passi bastano a confermare questa considerazione.. Quando ragiona sul rapporto tra i richiamati e la guerra, il nostro osserva: «Amano la guerra, questi uomini? No. La detestano? Nemmeno. L’accettano come un dovere che non si discute». Capisce anche la natura sociale della gran massa dei soldati: «È la guerra dei braccianti. La vanghetta vale il fucile». E si rende perfettamente conto di quanto il conflitto abbia cambiato il rapporto tra le masse e il paese. «Qui nessuno dice: torno al mio paese! Si dice: tornare in Italia. L’Italia appare così, forse per la prima volta, nella coscienza di tanti suoi figli come una realtà una e vivente, come la patria comune». «Questa guerra, fatta dai popoli e non dagli eserciti di caserma – scrive ancora – segna la fine del militarismo di casta o professionale». È la guerra della Nazione insomma. Non era ancora il futuro leader, ma la lucidità era già quella, e queste pagine meritano una lettura attenta.”
di Aldo G. Ricci
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