Il primo romanzo di Nicola De Cilia (Treviso, 1963) racconta una storia che ci sta appena alle spalle anche se sembra ormai lontana. Uno scandalo bianco (Rubettino, pp. 291) ha il pregio di farci ripensare alla Dc – il “partito regime” di ieri, appunto – trasportandoci al suo interno, in un tempo in cui vi erano ancora non rari gli idealisti che tuttavia condividevano l’appartenenza politica con feroci arrivisti. Inevitabili coabitazioni da guerra fredda, si potrebbe dire. Da partito “condannato a governare”, almeno fino al fatale ’89. Ma anche esito di una sapiente arte del potere e della tessitura politica, eguagliata, sull’altra sponda italiana del mondo diviso in blocchi, dalla spregiudicata abilità togliattiana nel costruire e gestire il suo “partito nuovo”.
De Cilia ci ricorda che la Dc era una cosa seria e che anche i peggiori di quella parte erano persone di spessore e che, oltre a costoro (per i quali, alla fine, purtroppo per essa e per l’Italia, sarà soprattutto ricordata), c’erano in quel partito onnivoro e onnicomprensivo anche figure sincere come quelle descritte nel libro. O come Tina Anselmi, appena scomparsa, una personalità in cui l’ambivalenza della Balena Bianca si esprimerà al massimo, tra queste stesse contrade e Roma, con la staffetta partigiana, la sindacalista, la parlamentare, la ministra che, pur tra luci e ombre, darà al paese una buona riforma sanitaria, e che infine indagherà – da presidente della commissione parlamentare sulla P2 – su alcuni dei lati più oscuri del potere esercitato dal suo stesso partito.
Ogni tanto si sente dire, al cospetto di questa Seconda Repubblica (o quello che è), che viene da avere nostalgia della Prima e della stessa classe dirigente democristiana. Certo, a considerare il livello di tanti tizi e tizie del ceto politico attuale, la tentazione può anche venire. Ma occorre fare uno sforzo freddo di memoria storica e di riflessione. Al netto delle sue figure più apprezzabili, la Dc, nella sua esperienza di potere e di governo, è stata soprattutto il partito degli altri. Della loro efferata volontà di potere, che non si è fermata di fronte a niente, neppure a trame e a crimini, ad arcana imperii che trasformano le storie di House of Cards in favolette.
Quanto alla qualità del governo, centrale e locale, le cose sono andate perfino peggio, perché se malgrado trame e stragi e collusioni l’Italia è rimasta una democrazia, sia pure ferita e incompiuta, e ciò si deve anche alla parte migliore della Dc (e dello Stato), rimarranno a lungo insormontabili i guasti prodotti da un’azione di governo che non ha saputo sfruttare la ricostruzione e il boom per modernizzare in modo lungimirante il paese, piegandosi agli interessi dei più torvi e voraci poteri agrari, industriali (Fiat in testa), immobiliari (palazzinari in testa), petroliferi (i Cefis) e così via, garantendosi il consenso soprattutto finanziandolo col debito pubblico, con annessa rete di clientele e con la complicità delle corporazioni di ogni sorta. Il paese indebitato, inquinato, cementificato, dissestato, alla mercé delle conseguenze di questo scempio è – povero Bel Paese, povere Chiare Fresche Dolci Acque, povera Italia – il prodotto di quella classe dirigente di cui, davvero, è impossibile avere nostalgia.
Quanto a chi le è succeduto, soprattutto nel profondo nord, non è molto diverso dai predecessori, a volte è perfino molto peggio. E’ questo che fa del libro di De Cilia una storia niente affatto lontana e che (basta leggere le cronache degli odierni scandali bancari, anche veneti) lo rende attualissimo. La trama si dipana attorno a uno scandalo bancario: un giro di assegni a vuoto mette in crisi la Cassa Rurale di San Bughè, in provincia di Treviso, creando un “buco” che si tenta di coprire con fondi stornati, provvisoriamente nelle intenzioni, alla Cantina Sociale. Gli ingenui e, a loro modo, idealisti protagonisti e infine vittime dello scandalo, sono gli stessi che avevano fondato la Cassa e la Cantina per dare respiro a un territorio povero, una speranza di moderno riscatto ai contadini, ispirata agli ideali del cattolicesimo sociale. Quando si trovano nei guai, irretiti da un avventuriero (il gioielliere Bisatto), finiscono sbranati da uno squalo che viene dal loro stesso ambiente, un potente avvocato locale (Carlo Maria Caron) poi rampante politico democristiano.
De Cilia conosce a fondo il mondo che racconta, già “piccolo mondo antico” e ora landa arricchita ma anche stravolta e impaurita dalla globalizzazione. La storia che narra si pone giusto a mezzo tra le due epoche, immediatamente prima che Tangentopoli (con la caduta del Muro) travolga la Dc, perfino nel Veneto, e porti al potere i freschi campioni di una nuova composizione sociale e antropologica, dai leghisti a Forza Italia, da Galan a Zaia e compagnia. Il racconto scorre piano, sprofondando a volte nelle psicologie dei personaggi (soprattutto quello centrale, Angelo Cossalter, ma anche la di lui moglie, Luciana), altre volte allargandosi a descrivere il contesto, le relazioni economiche, le strutture del potere della provincia veneta (non dissimile, in realtà, da molta provincia italiana). De Cilia, sulla base di una storia vera (degli anni Ottanta), sviluppa una sorta di propria linea narrativa che, potremmo dire, fa incontrare un certo Simenon dei romanzi senza Maigret con il Comisso indagatore del “Veneto felice” e dei suoi lati d’ombra, usando il contrasto per evocare la transizione avvenuta. Su questo singolare e promettente crinale, potrebbe anche osare romanzescamente di più, in futuro.
“Mi accorgo di essermi comportato come un povero illuso (…) Sono i Caron con i loro servi, i Bisatto con i loro intrallazzi, gli imprenditori spregiudicati, i bancari corrotti, i proprietari avidi, gli avvocati imbelli e complici del potere, sempre contro i più deboli, sempre dalla parte dei più forti: sono questi i personaggi che hanno vinto e che vinceranno sempre, quelli a cui il mondo ha dato ragione e sempre gliela darà…”, ammette amaramente, alla fine, Cossalter. La forza di questo bel romanzo di De Cilia consiste nel realismo con cui ricostruisce la vicenda e la rete di interessi e intrighi che la avviluppa, oltre che i profili dei vari personaggi e il paesaggio intorno, nel contrasto tra l’asprezza e la vischiosità dei fatti economici e politici e la dolcezza e la bellezza dello sfondo (che non rasserenano, anzi rendono più struggente l’angoscia e più velenoso il fallimento dei vinti).
E’ anche un buon antidoto a certa nostalgia di quei tempi (politici). Ci ricorda che un pessimo presente, a sua volta scandaloso, bianco sporco, non può farci guardare indietro. Insieme a chi non si dà per vinto, non resta che provarsi a guardare avanti.
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